Oggi vi segnalo la miniserie (8 puntate) “Un gentiluomo a Mosca” disponibile su Paramount+ e tratta dall’omonimo romanzo storico di Amor Towles.
Ho visto questa serie in un lasso di tempo abbastanza lungo (una puntata alla settimana o anche meno) e mi sono resa conto che un ritmo del genere era particolarmente adatto alla storia, che si svolge in un periodo di 30 anni.
Il protagonista, il conte Alexander Rostov, dopo la rivoluzione russa viene messo agli arresti domiciliari presso l’Hotel Metropol di Mosca. Costretto ad abbandonare la sua suite e (quasi) tutti i suoi oggetti personali, verrà trasferito in una soffitta piccola, buia e fredda, ma potrà utilizzare tutti i servizi dell’albergo.
Ewan McGregor è perfetto nel ruolo del nobile che ha perso di colpo tutti i suoi privilegi, ma che prova a adattarsi e, anche grazie al rapporto con i personaggi che lavorano o soggiornano spesso l’hotel, a plasmare l’ambiente che lo circonda per costruirsi una vita soddisfacente, a tratti pure felice.
Là fuori la Russia affronta un difficile periodo di cambiamenti e un’evoluzione dagli esiti incerti, la cui eco raggiunge in parte l’universo dorato del Metropol, dove Alexander deve destreggiarsi tra le minacce di un agente della Cheka (polizia segreta sovietica) di porre fine alla sua prigionia con la morte, l’interesse più o meno romantico per l’attrice Anna Urbanova, quello nei suoi confronti della piccola Nina Kulikova, figlia di uno dei dipendenti, che diventerà per lui una sorta di figlioccia, e i morsi della tristezza, che a un certo punto lo portano molto vicino ad assecondare il desiderio di farla finita.
Questa serie offre un punto di vista originale sugli eventi storici della Russia tra il 1917 e il 1947 e, mescolando dramma e ironia, si lascia guardare con piacere e con un discreto coinvolgimento.
Ho trovato particolarmente azzeccato il finale quasi aperto (anche se, purtroppo, sappiamo bene che non è così), che ti fa sorridere ma con una lacrimuccia sempre lì in agguato.
Però c’è qualcosa che di tanto in tanto riesce a rompere la magia, vale a dire la scelta di fare un casting colour-blind, cioè senza tenere conto dell’etnia degli interpreti.
È una cosa che comprendo e ha un suo senso in ambito teatrale, in cui lo sforzo immaginativo dello spettatore è da sempre parte stessa dell’esperienza, ma in una serie televisiva storica, che in moltissimi aspetti riproduce in maniera fedele la Russia di quel periodo, ritrovarsi con circa un quarto o più dei personaggi di colore (tra cui un bolscevico con i dreadlock!) è abbastanza straniante.
Non metto in dubbio che gli attori scelti siano bravissimi. Lo sono senza dubbio, spesso però i personaggi che interpretano sono talmente poco sviluppati da rendere qualsiasi bravura del tutto irrilevante, facendo quindi sorgere il “dubbio” che si tratti di una scelta puramente retorica.
Ma il vero problema è che, anche se il casting è “cieco”, lo spettatore non lo è per niente. L’aspetto di questi personaggi è di fatto una distrazione che riporta quest’ultimo costantemente alla realtà, infrangendo il coinvolgimento di cui parlavo prima.
E questo non va per niente bene.