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Di recente ho visto su Paramount+ la miniserie “Un letto per due” (The Flatshare, nella versione originale), tratta dall’omonimo romanzo di Beth O’Leary e composta da 6 puntate di 45 minuti circa.
Dopo aver visto “
The Lovers”, di cui vi ho parlato tempo fa, mi sono buttata su un’altra
commedia romantica britannica, prima di passare a qualcosa di più impegnativo.
L’idea di base da cui parte la storia è abbastanza originale: Tiffany e Leon, a causa di problemi economici, sono costretti a dividersi un piccolo appartamento a Londra, ma in maniera tale da non incontrarsi mai. Ne condividono infatti tutto, incluso il letto, solo che lei può usarlo dalle 20 alle 8 e nei weekend, mentre a lui spetta la fascia oraria dalle 8 alle 20 (i weekend li passa a casa della sua ragazza).
Tiffany lavora per un web magazine e si è appena lasciata con il suo ex, Justin, con cui aveva (e in parte ha ancora) una relazione tossica. Ritrovatasi senza un posto dove vivere e con pochi soldi, ha accettato la proposta di Leon.
Lui, invece, lavora di notte in un hospice e vuole mettere dei soldi da parte per cercare di tirare fuori il fratello di prigione.
I due non si sono mai visti, non conoscono l’uno l’aspetto dell’altra, e viceversa, non possono incontrarsi, né parlarsi al telefono o tramite messaggi col cellulare, ma comunicano esclusivamente attraverso dei post-it.
L’idea è sicuramente stuzzicante, anche se non viene mai chiarito come siano arrivati a questo accordo, visto che appunto non si sono mai incontrati!
L’esecuzione è a tratti molto divertente, grazie anche alla bravura dei due attori principali, Jessica Brown Findlay e Anthony Welsh, ma per tutta la visione ho avuto l’impressione che mancasse qualcosa. Sì, perché in una storia ambientata a Londra c’è ben poca traccia dello humour britannico che tanto avrebbe giovato alla sua narrazione.
I comprimari, poi, sono appena accennati, bidimensionali, cosa che non si spiega, vista la durata delle puntate e il loro ritmo non particolarmente serrato.
La storia è costellata qua e là da diversi spunti, anzi, troppi: relazioni tossiche, problemi giudiziali, relazioni omosessuali, relazioni interrazziali (praticamente tutte, tranne quella tossica), malattie terminali, abbandono degli anziani e così via, ma tutti appena accennati e spesso proprio buttati lì, quasi si stesse, volta per volta, mettendo un segno di spunta a una casella. Sarebbe stato meglio concentrarsi su pochi e svilupparli meglio.
A questo aggiungiamo alcune svolte importanti nell’economia della storia un po’ telefonate, mentre altre impreviste che però non sono molto convincenti, come, per esempio, situazioni senza speranza che si risolvono inspiegabilmente di colpo.
D’altra parte, la curiosità di scoprire in che modo si arriverà all’atteso lieto fine viene tenuta viva attraverso un continuo complicarsi degli eventi e dall’astuzia degli sceneggiatori nell’interrompere la storia a fine puntata sempre nel momento giusto.
Insomma, è una serie divertente, con alcuni ottimi punti di forza che riescono almeno in parte a farci chiudere un occhio sui tanti deboli.
Mi sento di consigliarvela.
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