Di Carla (del 23/12/2024 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 75 volte)
Oggi vi segnalo la miniserie (8 puntate) “Un gentiluomo a Mosca” disponibile su Paramount+ e tratta dall’omonimo romanzo storico di Amor Towles.
Ho visto questa serie in un lasso di tempo abbastanza lungo (una puntata alla settimana o anche meno) e mi sono resa conto che un ritmo del genere era particolarmente adatto alla storia, che si svolge in un periodo di 30 anni.
Il protagonista, il conte Alexander Rostov, dopo la rivoluzione russa viene messo agli arresti domiciliari presso l’Hotel Metropol di Mosca. Costretto ad abbandonare la sua suite e (quasi) tutti i suoi oggetti personali, verrà trasferito in una soffitta piccola, buia e fredda, ma potrà utilizzare tutti i servizi dell’albergo.
Ewan McGregor è perfetto nel ruolo del nobile che ha perso di colpo tutti i suoi privilegi, ma che prova a adattarsi e, anche grazie al rapporto con i personaggi che lavorano o soggiornano spesso l’hotel, a plasmare l’ambiente che lo circonda per costruirsi una vita soddisfacente, a tratti pure felice.
Là fuori la Russia affronta un difficile periodo di cambiamenti e un’evoluzione dagli esiti incerti, la cui eco raggiunge in parte l’universo dorato del Metropol, dove Alexander deve destreggiarsi tra le minacce di un agente della Cheka (polizia segreta sovietica) di porre fine alla sua prigionia con la morte, l’interesse più o meno romantico per l’attrice Anna Urbanova, quello nei suoi confronti della piccola Nina Kulikova, figlia di uno dei dipendenti, che diventerà per lui una sorta di figlioccia, e i morsi della tristezza, che a un certo punto lo portano molto vicino ad assecondare il desiderio di farla finita.
Questa serie offre un punto di vista originale sugli eventi storici della Russia tra il 1917 e il 1947 e, mescolando dramma e ironia, si lascia guardare con piacere e con un discreto coinvolgimento.
Ho trovato particolarmente azzeccato il finale quasi aperto (anche se, purtroppo, sappiamo bene che non è così), che ti fa sorridere ma con una lacrimuccia sempre lì in agguato.
Però c’è qualcosa che di tanto in tanto riesce a rompere la magia, vale a dire la scelta di fare un casting colour-blind, cioè senza tenere conto dell’etnia degli interpreti.
È una cosa che comprendo e ha un suo senso in ambito teatrale, in cui lo sforzo immaginativo dello spettatore è da sempre parte stessa dell’esperienza, ma in una serie televisiva storica, che in moltissimi aspetti riproduce in maniera fedele la Russia di quel periodo, ritrovarsi con circa un quarto o più dei personaggi di colore (tra cui un bolscevico con i dreadlock!) è abbastanza straniante.
Non metto in dubbio che gli attori scelti siano bravissimi. Lo sono senza dubbio, spesso però i personaggi che interpretano sono talmente poco sviluppati da rendere qualsiasi bravura del tutto irrilevante, facendo quindi sorgere il “dubbio” che si tratti di una scelta puramente retorica.
Ma il vero problema è che, anche se il casting è “cieco”, lo spettatore non lo è per niente. L’aspetto di questi personaggi è di fatto una distrazione che riporta quest’ultimo costantemente alla realtà, infrangendo il coinvolgimento di cui parlavo prima.
Di Carla (del 18/12/2024 @ 09:30:00, in Tennis, linkato 170 volte)
Questo 2024 è stato davvero un anno indimenticabile per il tennis italiano. Da appassionata, sono ancora incredula di fronte ai risultati ottenuti dai nostri giocatori.
Già il 2023 era finito davvero alla grande, con l’exploit di Jannik Sinner nell’ultima parte della stagione, culminato con la conquista della Coppa Davis per l’Italia, che, sebbene si tratti di una competizione per squadre, è stata raggiunta per gran parte per merito suo.
Sapevo che per il 2024 c’erano i presupposti di un’ottima stagione per lui, ma non immaginavo minimamente che sarebbe diventato in maniera così schiacciante il giocatore più forte del mondo, vincendo due Slam, tre ATP Masters 1000, due ATP 500 e le ATP Finals (cui si aggiunge la vittoria al 6 Kings Slam, che pur essendo un’esibizione l’ha visto dominare, in sequenza, Medvedev, Djokovic e Alcaraz), terminando l’anno nella prima posizione del ranking con un margine di distanza dal secondo in classifica tale da dargli la certezza di trovarsi ancora lassù almeno fino a febbraio, indipendentemente da come andrà l’inizio del 2025.
E poi c’è stata la ciliegina sulla torta: un’altra Coppa Davis, stavolta vinta insieme a Matteo Berrettini, che nonostante i numerosi infortuni degli scorsi anni e anche di questo che sta per finire, è riuscito a concluderlo da protagonista, dopo aver conquistato anche tre titoli stagionali.
Insomma, più ci penso e più mi devo dare dei pizzicotti per rendermi conto che, sì, è tutto vero.
Ancora una volta non posso che confermare ciò che mi sono detta a giugno, quando Jannik ha raggiunto per la prima volta la posizione n. 1 del ranking: i sogni si avverano.
E questo a volte succede se si lavora seriamente per raggiungerli. Non basta desiderarlo, né basta crederci. È necessario impegnarsi, prendendosi tutto il tempo necessario per cercare di migliorare: i risultati non sono altro che la conseguenza di questo incessante lavoro.
A noi possono sembrare quasi incredibili, se paragonati a un passato molto recente, ma chi li raggiunge, in questo caso Jannik Sinner, sa esattamente cosa ha dovuto fare per riuscirci e come ci è riuscito.
Di recente, in un’intervista, gli è stato chiesto di definirsi con un’unica parola e, dopo averci pensato per qualche breve istante, ha detto: determinato.
Credo che lo descriva davvero in maniera perfetta.
Lui aveva un sogno e con determinazione ha cercato e trovato il modo migliore di perseguirlo, finché non l’ha trasformato in realtà. Non è stata magia, né fortuna, ma solo il risultato del suo lavoro.
Non so voi, ma io trovo tutto questo, oltre che fonte di grande ispirazione, anche assolutamente rassicurante.
E lo rende ancora di più il fatto che il successo di Jannik Sinner non è affatto un caso isolato.
C’è quello di Jasmine Paolini, che, a 28 anni, ha avuto una stagione ricca di soddisfazioni. Non qualche fiammata improvvisa, ma una serie di risultati importanti per tutto il corso dell’anno: un WTA 1000 e due finali Slam in singolare, oltre che tanti ottimi piazzamenti nella maggior parte dei tornei cui ha partecipato, due WTA 1000, un WTA 500, una finale Slam e una medaglia d’oro alle Olimpiadi in doppio insieme a Sara Errani, la partecipazione alle WTA Finals sia in singolare che in doppio e, anche in questo caso ciliegina sulla torta, la vittoria con la nazionale della Billie Jean King Cup, giocando sia in singolare che in doppio (grazie anche all’importantissimo contributo di Lucia Bronzetti come seconda singolarista in semifinale e in finale), che l’anno scorso aveva solo sfiorato.
A tutto ciò si aggiunge l’aver terminato l’anno da n. 4 del mondo, cosa mai riuscita a nessun’altra tennista italiana.
Ho già citato i successi in doppio di Jasmine con Sara Errani, ma quest’ultima nel 2024 ha vinto un altro Slam (oltre ai cinque conquistati con Roberta Vinci in passato), questa volta in doppio misto con Andrea Vavassori.
E poi lo stesso Vavassoriinsieme a Simone Bolelli ha raggiunto quest’anno due finali Slam, vinto due ATP 500 e un ATP 250, partecipato alle ATP Finals, vinto la Coppa Davis con la nazionale e tuttora si trova nella top 10 del doppio.
Infine, abbiamo i già citati tre titoli di Berrettini (che raggiunge quota dieci in carriera), cui si aggiungono il primo in assoluto di Luciano Darderi e il quarto di Lorenzo Sonego (che ora può vantarsi di aver vinto un titolo su tutte le superfici e in tutte le condizioni).
In pratica, quest’anno, quasi ogni settimana avevamo uno o più tennisti italiani in finale e in molti casi vincitori di titoli. Una roba esagerata!
Che dire, se non che è un gran momento per essere un appassionato di tennis in Italia?
Io non posso che esserne felice.
E, proprio adesso che quest’anno sta per finire, voglio solo fermarmi un attimo per godermi questo momento e tutta la serenità che trasmette alla mia vita.
Non so cosa succederà nella prossima stagione, ma di certo nulla e nessuno potrà togliermi la soddisfazione che ho provato durante il 2024.
Le foto di questo articolo non le ho prese dalla rete. Le ho scattate io.
Ho avuto la fortuna di vedere di persona le ragazze trionfare a Malaga, alla Billie Jean King Cup, il 20 novembre scorso e i ragazzi vincere i quarti di finale (il 21 novembre) di quella Coppa Davis che avrebbero poi conquistato qualche giorno dopo.
In questi anni sono riuscita a veder giocare dal vivo molti giocatori italiani (qualcuno, come Sonego, in più occasioni), ma stavolta ho potuto aggiungere a questa mia personale “raccolta” Lucia Bronzetti, Jasmine Paolini, Matteo Berrettini (che mi era “sfuggito” in passato) e soprattutto il mio tennista preferito già da alcuni anni (ben prima che diventasse il preferito di mezzo mondo!): Jannik Sinner.
L’ho visto giocare e vincere letteralmente a pochi passi da me sia in singolare che in doppio.
Ho potuto osservare dal vivo la sua grande concentrazione, la sua forza, velocità e precisione, il modo con cui si isola dalle migliaia di persone che lo circondano e affronta ogni punto. Ho percepito proprio quella determinazione di cui lui stesso ha poi parlato e mi sono lasciata ispirare da essa, constatando direttamente con tutti i miei sensi che, in realtà, non c’è niente di incredibile, miracoloso o magico.
È tutto semplicemente vero.
E questa è un’altra soddisfazione che nessuno potrà togliermi.
Dall’alto: 1) Jannik Sinner; 2) Jannik Sinner; 3) la nazionale italiana maschile di tennis durante l'inno italiano; 4) Matteo Berrettini e Jannik Sinner; 5) Jannik Sinner; 6) Jasmine Paolini; 7) Jasmine Paolini; 8) Elisabetta Cocciaretto, Jasmine Paolini, Tathiana Garbin e Sara Errani; 9) Matteo Berrettini; 10) la nazionale italiana femminile di tennis dopo la premiazione della Billie Jean King Cup; 11) Lucia Bronzetti; 12) Jannik Sinner; 13) Jannik Sinner e Matteo Berrettini.
Di Carla (del 16/12/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 122 volte)
Uno dei film che ho visto al cinema di recente è “Megalopolis” di Francis Ford Coppola.
Sono andata a vederlo dopo aver letto qua e là critiche feroci e lapidarie, e proprio per questo ne ero ancora di più incuriosita.
“Megalopolis” non è un film facile, lineare, convenzionale. Non è adatto a una visione passiva. Richiede attenzione, motivo per cui vederlo al cinema è senza dubbio la scelta migliore, in quanto annulla le distrazioni (si spera!).
È una favola onirica, ricca di allegorie e scene surreali, traboccante di citazioni.
La storia nei suoi punti salienti è abbastanza semplice, per questo credo sia inutile che io ne parli (potete leggerne la trama ovunque sul web), ma ciò che la rende interessante è il modo in cui Coppola ha deciso di mostrarla, giocando con la sceneggiatura, i suoni, le scenografie, gli effetti visivi, la musica e il montaggio.
“Megalopolis” è un’esperienza cinematografica a tutto tondo.
Può piacere a chi ama il cinema come strumento per creare arte e non semplicemente per raccontare una storia.
È comprensibile che Coppola abbia dovuto autoprodurserlo e che lo spettatore medio l’abbia trovato confusionario, perché pensava di andare semplicemente a vedere una storia, non di vivere dentro un’opera d’arte.
Molti dei suoi aspetti che sembrano folli o casuali, in realtà, hanno uno scopo. Ogni inquadratura, ogni parola pronunciata dai protagonisti, ogni suono. Probabilmente per coglierli tutti servono più visioni e un certo bagaglio culturale potrebbe essere di aiuto, ma non è essenziale, poiché credo che chiunque possa apprezzarli in maniera istintiva, se lascia da parte gli schemi e si limita a seguire il flusso del film.
Adam Driver è bravissimo, ma questa non è certo una novità.
Una scena che mi è piaciuta particolarmente è quella con le travi sospese in cima al grattacielo (da lì viene l’immagine a corredo di questo articolo). È molto suggestiva dal punto di vista visivo e allo stesso tempo, nella parte iniziale, rappresenta bene lo stato d’animo del protagonista in uno dei momenti chiave della storia.
Coppola specifica all’inizio del film che si tratta di una favola e lo spirito con cui va affrontata la visione è proprio questo: bisogna sospendere l’incredulità.
Questo film parte da una realtà alternativa distopica per tendere verso l’utopia. È carico di elementi fantastici, dal soprannaturale (la capacità di fermare il tempo) alla pseudo-scienza fantascientifica dal sapore alchemico (il materiale inventato dal protagonista: il megalon). Ed è una gioia per gli occhi degli amanti del cinema.
Qualcuno potrà anche cogliere e magari apprezzare la morale di questa favola, altri, come me, semplicemente godersi il film senza farsi troppi problemi.
Alla fine dipende da ognuno di noi, da cosa cerchiamo quando ci accomodiamo davanti al grande schermo.
Se siete dei sognatori e fin da bambini, come me, vedevate nella sala cinematografica un luogo dove annullare voi stessi e diventare parte di qualcos’altro, anche per fuggire dai piccoli e grandi problemi della realtà, dovreste andare a vederlo e giudicarlo per conto vostro.
Di Carla (del 09/12/2024 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 128 volte)
Di recente ho visto su Paramount+ la miniserie “Un letto per due” (The Flatshare, nella versione originale), tratta dall’omonimo romanzo di Beth O’Leary e composta da 6 puntate di 45 minuti circa.
Dopo aver visto “The Lovers”, di cui vi ho parlato tempo fa, mi sono buttata su un’altra commedia romantica britannica, prima di passare a qualcosa di più impegnativo.
L’idea di base da cui parte la storia è abbastanza originale: Tiffany e Leon, a causa di problemi economici, sono costretti a dividersi un piccolo appartamento a Londra, ma in maniera tale da non incontrarsi mai. Ne condividono infatti tutto, incluso il letto, solo che lei può usarlo dalle 20 alle 8 e nei weekend, mentre a lui spetta la fascia oraria dalle 8 alle 20 (i weekend li passa a casa della sua ragazza).
Tiffany lavora per un web magazine e si è appena lasciata con il suo ex, Justin, con cui aveva (e in parte ha ancora) una relazione tossica. Ritrovatasi senza un posto dove vivere e con pochi soldi, ha accettato la proposta di Leon.
Lui, invece, lavora di notte in un hospice e vuole mettere dei soldi da parte per cercare di tirare fuori il fratello di prigione.
I due non si sono mai visti, non conoscono l’uno l’aspetto dell’altra, e viceversa, non possono incontrarsi, né parlarsi al telefono o tramite messaggi col cellulare, ma comunicano esclusivamente attraverso dei post-it.
L’idea è sicuramente stuzzicante, anche se non viene mai chiarito come siano arrivati a questo accordo, visto che appunto non si sono mai incontrati!
L’esecuzione è a tratti molto divertente, grazie anche alla bravura dei due attori principali, Jessica Brown Findlay e Anthony Welsh, ma per tutta la visione ho avuto l’impressione che mancasse qualcosa. Sì, perché in una storia ambientata a Londra c’è ben poca traccia dello humour britannico che tanto avrebbe giovato alla sua narrazione.
I comprimari, poi, sono appena accennati, bidimensionali, cosa che non si spiega, vista la durata delle puntate e il loro ritmo non particolarmente serrato.
La storia è costellata qua e là da diversi spunti, anzi, troppi: relazioni tossiche, problemi giudiziali, relazioni omosessuali, relazioni interrazziali (praticamente tutte, tranne quella tossica), malattie terminali, abbandono degli anziani e così via, ma tutti appena accennati e spesso proprio buttati lì, quasi si stesse, volta per volta, mettendo un segno di spunta a una casella. Sarebbe stato meglio concentrarsi su pochi e svilupparli meglio.
A questo aggiungiamo alcune svolte importanti nell’economia della storia un po’ telefonate, mentre altre impreviste che però non sono molto convincenti, come, per esempio, situazioni senza speranza che si risolvono inspiegabilmente di colpo.
D’altra parte, la curiosità di scoprire in che modo si arriverà all’atteso lieto fine viene tenuta viva attraverso un continuo complicarsi degli eventi e dall’astuzia degli sceneggiatori nell’interrompere la storia a fine puntata sempre nel momento giusto.
Insomma, è una serie divertente, con alcuni ottimi punti di forza che riescono almeno in parte a farci chiudere un occhio sui tanti deboli.
Di Carla (del 02/12/2024 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 159 volte)
Il tennis e la vita, il tennis è la vita
Nel leggere questo libro, soprattutto nei primi capitoli in cui Agassi racconta la sua infanzia, non sembra affatto di trovarsi di fronte a una storia vera. Sembra uno di quei romanzi di narrativa non di genere i cui protagonisti vivono una vita talmente strana che non può essere altro che scaturita dalla fantasia di qualcuno.
Un padre così ossessionato dal tennis da costringere tutti i suoi figli ad allenarsi e giocare finché uno di loro non diventerà un campione? Ma che roba è?
È proprio vero che talvolta la realtà è così incredibile da superare ampiamente la fantasia.
La storia di Agassi è interessante, al di là della sua particolare gioventù travagliata e dei grandi successi che ha avuto nella sua carriera (d’altronde è stato uno dei più grandi tennisti della storia). Ciò che la rende davvero avvincente è che offre al lettore, e soprattutto all’appassionato di tennis, come sono io, una finestra nella mente di un tennista. Infatti, noi che amiamo anche solo guardare questo sport osserviamo i giocatori durante gli incontri e soffriamo un po’ con loro, ma non abbiamo idea di ciò che passi nella loro mente. Non veramente. Possiamo fare solo delle supposizioni in base alle loro azioni, ai loro sguardi, al loro linguaggio del corpo. Sentiamo e leggiamo le loro interviste, ma anche in quel caso non sappiamo cosa stiano realmente pensando, né se combaci o meno con le loro parole.
Poter accedere ad aspetti così intimi della mente di Andre Agassi ci fornisce un’idea, anche se solo da un solo punto di vista, di ciò che non possiamo vedere dei nostri beniamini, di cosa può significare trovarsi soli su quel campo ad affrontare un avversario e a lottare contro le proprie emozioni, la concentrazione che tende a perdersi, il corpo che a volte tradisce, le speranze e le delusioni.
Alla fine della lettura non solo Agassi è diventato quasi un amico, per quanto abbiamo imparato a conoscerlo, ma ci sembra di essere un po’ più vicini e consapevoli nei confronti di chiunque gioca a tennis ad alto livello, che lo fa per lavoro, che lotta continuamente contro il peggiore degli avversari: se stesso.
Al di là di quanto si ami il tennis, credo che “Open” possa essere una lettura coinvolgente e istruttiva per chiunque.
Ho solo un appunto da fare all’edizione, che è quella del 2015, ma immagino che la prima edizione del 2011 avesse lo stesso problema: tutti gli accenti delle “i” e delle “u” sono sbagliati, tutti! Si tratta di una cosa assolutamente inconcepibile per un libro della Einaudi, che in un’edizione per così dire economica costa più di 15 euro.
Open (Kindle, cartaceo) su Amazon.it. Open (Kindle, cartaceo) su Amazon.com.
Di Carla (del 25/11/2024 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 194 volte)
Una delle ultime serie che ho visto è “The Lovers”. Si tratta di una commedia romantica Sky Original, di sei puntate da 30 minuti l’una, decisamente spumeggiante!
La storia è quella dell’egocentrico Seamus, presentatore televisivo inglese, ma di origini irlandesi, che durante le registrazione di un programma a Belfast è preso di mira da un gruppo di giovani locali che lo vogliono picchiare e, nel fuggire, finisce nel cortire di Janet, una cassiera depressa che proprio in quel momento sta per uccidersi.
Tra i due, che sono l’uno l’opposto dell’altra (lui egocentrico e vanitoso; lei depressa, cinica e con uno spiccato humour nero), scatta qualcosa.
Solo che lui èfidanzato con una nota attrice (interpretata dalla bravissima Alice Eve) e lei, be’, nasconde qualcosa.
La loro vicenda si svolge in sei rapide puntate scoppiettanti che, con un ritmo forsennato, un alternarsi di situazioni bizzarre e continui cambiamenti di direzione, vi stupiranno, vi faranno ridere a crepapelle, ma talvolta anche riflettere, e alla fine vi lasceranno con un piacevole senso di appagamento.
Merito di tutto ciò va dato a una sceneggiatura che sa dosare ironia e romanticismo, senza esagerare in nessuno dei due aspetti, con dialoghi brillanti in cui i due protagonisti, perfettamente interpretati da Johnny Flynn e Roisin Gallagher, si confrontano in maniera schietta, a tratti rude e soprattutto imprevedibile, rivelandosi così l’uno all’altra e al pubblico.
Il tutto si svolge in un contesto in cui ciò che è giusto e ciò che è sbagliato vengono sospesi, lasciando spazio alla sincerità più cruda ed esilarante.
Di Carla (del 11/11/2024 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 199 volte)
Nelle scorse settimane ho guardato su Amazon PrimeVideo la prima stagione della serie “Those About to Die”, ambientata nella Roma del 79 d.C e ispirata al romanzo omonimo di Daniel P. Mannix, che aveva a sua volta ispirato “Il Gladiatore” di Scott (ma la storia della serie e quella del film non hanno praticamente nulla in comune).
Vengono narrate alcune vicende relative all’ultimo periodo di vita di Flavio Vespasiano e a quello immediatamente successivo alla sua morte, avvenuta proprio nell’anno della famosa eruzione del Vesuvio che portò alla distruzione di Pompei.
La serie include ingredienti già visti in altre simili, come “Roma” (bellissima!) e “Spartacus” (bella la prima stagione e poi sempre peggio), con intrighi politici, violenza a fiumi (di sangue!), sesso e una continua sensazione che i personaggi possano da un momento all’altro morire male.
In linea generale mi è piaciuta, ma specifico, prima di tutto, di averla vista nella versione originale in inglese. Ho letto in giro che il doppiaggio non è un granché, soprattutto quello degli attori italiani, che immagino abbiano doppiato se stessi, ma non posso commentare su questo aspetto.
Cosa mi è piaciuto?
La ricostruzione dell’antica Roma a livello visivo, soprattutto le riprese panoramiche, ovviamente create in computer grafica, ma anche le scelte di fotografia nelle singole ambientazioni dove si muovono i personaggi sono molto suggestive.
Molto belle, in particolare, le scene delle corse con le bighe.
Purtroppo in alcuni casi l’uso del computer si vede, soprattutto quando entrano in scena gli animali che interagiscono con gli attori in carne e ossa.
Fin troppo realistici invece gli aspetti più truculenti dei combattimenti tra i gladiatori.
Il titolo si riferisce al famoso saluto attribuito a questi ultimi (morituri te salutant) rivolto all’imperatore prima di iniziare a combattere e devo dire che mi ha fatto un po’ ridere sentirlo pronunciato in inglese.
All’inizio ho avuto difficoltà ad affezionarmi ai personaggi, anche perché sono tanti. In generale sono tutti più o meno negativi e chi inizialmente non lo è finisce per rivelarsi come tale con l’andare avanti della storia. Tutto è permeato da un senso di violenza e cattiveria.
Alla fine quello che è riuscito a conquistarmi è Tenax, l’allibratore che viene definito il re di Suburra e che finisce per avere una parte nei conflitti di potere tra i due figli di Vespasiano.
Nel complesso c’è qualcosa che non mi ha convinto fino in fondo nel modo in cui è stata sviluppata la trama, ma non mi sento di bocciare la serie, perché in fin dei conti l’ho guardata con interesse dall’inizio alla fine.
Ciò di cui mi rendo conto, invece, è che tutte queste serie ambientate nell’antica Roma finiscono per darci la stessa immagine dei nostri antenati: cattivi, violenti, volubili, incapaci di una qualsiasi forma di fedeltà, vendicativi, depravati, freddi e calcolatori. Di certo sono tutti aspetti che favoriscono il conflitto e, d’altronde, le storie per esistere richiedono la presenza di un conflitto. Ma credo che un popolo che è stato in grado di costruire un impero così esteso, anche e soprattutto grazie al proprio ingegno e alle tecnologie derivate da quest’ultimo, abbia in sé tanti altri aspetti da mostrare che sono decisamente più positivi e interessanti.
Ecco, mi piacerebbe che anche questi aspetti trovassero posto in unaserie di genere storico.
Chiedo troppo?
Renderebbe tutto un po’ più tridimensionale e realistico e toglierebbe la fastidiosa sensazione di vedere sempre gli stessi ingredienti rimescolati all’infinito anche se in un contesto diverso, che magari è pure bello, ma finisce per apparire vuoto, senz’anima.
Di Carla (del 07/10/2024 @ 09:30:00, in Musica, linkato 259 volte)
Non posso esattamente definirmi una fan della band, perché non l’ho mai seguita con particolare attenzione, ma ascolto la loro musica da quando esistono e mi piace molto. Ho persino il loro primo album su CD. E nel 2017 fui molto dispiaciuta nell’apprendere la notizia della morte di Chester Bennington.
Al di là della tragicità dell’evento, che mi fece un certo effetto (Chester era più giovane di me di un paio d’anni, ne aveva solo 41 quando si è tolto la vita), tra le varie cose, ricordo di aver pensato che non avrei mai avuto l’occasione di vederli suonare dal vivo.
Adesso Mike Shinoda e gli altri (tranne uno) hanno deciso di portare avanti il gruppo con una nuova voce, Emily Armstrong, e un nuovo album, “From Zero”, che uscirà il 15 novembre.
Quando l’ho saputo, ho subito pensato che fosse un’idea sensata optare per una voce femminile, in modo da non dare l’impressione di voler soppiantare Chester, ma mi chiedevo come fosse possibile per una donna cantare quei brani.
Be’, un paio di settimane fa ho visto su YouTube una registrazione del primo concerto a Los Angeles e ho dovuto ricredermi.
È possibile eccome e lei è bravissima!
Le sue doti tecniche e la sua estensione vocale la rendono, a mio parere, una buona erede di Chester.
È chiaro che si tratta di qualcosa di diverso, ma penso che sia decisamente meglio di niente.
Sono curiosa di ascoltare il nuovo album e, soprattutto, sto iniziando a cullare l’idea di vederli finalmente dal vivo.
Il solo fatto che esista questa possibilità è proprio una bella cosa!
Se non avete avuto ancora modo di ascoltare la voce di Emily Armstrong e avete un paio di ore di tempo libero, potete farlo qui sotto.
È il video del concerto in questione.
Se invece avete solo un’oretta, potete guardare questa registrazione di un live set più breve, quello con cui hanno presentato la cantante, disponibile sul canale YouTube della band. La qualità è decisamente migliore, poiché si tratta di un prodotto professionale.
Di Carla (del 23/09/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 271 volte)
“Challengers” è un film di Luca Guadagnino (aprile 2024).
Ma che bello!
Finalmente un po’ di cinema con la C maiuscola, in cui gli strumenti della settima arte vengono sfruttati al meglio per raccontare una storia nata e sviluppata per il grande schermo.
Ciò che lo rende bello non è solo la storia in sé (che è comunque ben congegnata), ma il modo in cui viene mostrata al pubblico un pezzetto alla volta con una serie di flashback sapientemente inseriti lungo il corso di un incontro di tennis.
I protagonisti del triangolo amoroso rivelano scena dopo scena la propria natura e quella del rapporto che li lega, attraverso dialoghi efficaci, piccoli dettagli, una colonna sonora a dir poco perfetta e un montaggio da urlo.
E poi ci sono alcune chicche pazzesche, come in una delle ultime scene, quando il punto di vista della cinepresa diventa quello di uno dei giocatori e poi dell’altro, finisce sotto il campo, come se la sua superficie fosse di vetro, e a un certo punto passa a quello della pallina da tennis.
Insomma, che vi piaccia o meno il tennis, ve lo consiglio, ma, se amate e seguite il tennis, non potete perdervelo.
Anche se il film non è sul tennis, che è solo il contesto in cui è narrato il triangolo amoroso, se conoscete un po’ questo sport e i suoi protagonisti del presente e del passato, non potranno sfuggirvi quegli elementi della realtà (fatti e persone) che hanno ispirato alcuni aspetti della storia e soprattutto dei personaggi.
Di Carla (del 19/09/2024 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 282 volte)
Ho visto “Beetlejuice Beetlejuice” ed era davvero tanto tempo che non mi divertivo così al cinema!
Parto dalla premessa che io sono una fan di Tim Burton e adoro “Beetlejuice”, che è senza dubbio il film che ho visto più volte in assoluto. C’è stato un periodo negli anni 90 in cui conoscevo praticamente tutte le battute della versione in italiano a memoria, ma, soltanto quando negli anni zero ho comprato il DVD e ho potuto guardarlo in lingua originale, ne ho potuto comprendere fino in fondo la genialità.
Ma, proprio perché amo questo film, da una parte ero felice per il sequel e dall’altra temevo che potesse deludermi, dopo oltre 30 anni di attesa (il film è del 1988, ma io lo vidi la prima volta nei primi 90).
Fortunatamente si trattava di un timore infondato.
Per prepararmi adeguatamente, qualche ora prima di andare al cinema mi sono rivista “Beetlejuice”, anche perché dall’ultima volta erano passati forse 15 anni, e si tratta di una cosa che consiglio a chiunque sia intenzionato a vedere il sequel. Se non avete mai visto il primo, dovete vederlo, perché i collegamenti sono troppi e viene dato per scontato che lo spettatore li conosca. Ma, anche se l’avete visto, non è una cattiva idea rinnovare un po’ quel ricordo.
Devo dire che, man mano che lo riguardavo, mi ricordavo tutto, ma fissare nella memoria l’aspetto visivo del film è risultato essenziale nel godimento della visione del sequel.
Infatti, meno di un’ora e mezza dopo aver terminato la visione mi trovavo nella mia poltrona reclinabile al cinema e partiva la proiezione. L’impressione che ho avuto è di totale continuità tra le due opere, a iniziare dalla schermata col logo della Geffen e dal font usato per i titoli iniziali che scorrevano sul paesaggio di Winter River, mentre veniva riprodotta l’inconfondibile colonna sonora di Danny Elfman.
Successivamente ad accogliere lo spettatore c’è Winona Ryder, che 36 anni dopo riprende il personaggio di Lydia Deetz. Ed è proprio lei, Lydia. È come se lo fosse sempre stata. Semplicemente è cresciuta, come lo sono io, d’altronde.
Un’altra cosa che temevo era di essere travolta da un senso dolceamaro di nostalgia nei confronti di un tempo cui apparteneva una me adolescente che adesso non esiste più, ma non è stato affatto così.
Mi sono sentita a casa, perché quella particolare parte di me esiste ancora, e sono stata felice di sapere cos’era accaduto a Lydia e agli altri personaggi in tutto questo tempo, come pure di seguirli in questa nuova avventura.
Che dire poi di Michael Keaton?
Grazie al pesantissimo trucco è quasi impossibile notare la differenza tra come era negli anni 80 e come è adesso, e ciò aggiunge un tocco di “realismo” al tutto (le virgolette sono d’obbligo!).
Non posso dirvi nulla della storia, ma proprio nulla, perché è bello vederla così. Tutto sommato, il trailer si limita a rivelare i personaggi coinvolti, ma non in che modo questi si muovono nella storia.
Posso solo dirvi che sono rimasta per tutto il tempo con gli occhi incollati allo schermo, dimenticandomi di chi fossi e di dove fossi, proprio come mi accadeva quando andavo al cinema negli anni 90, e che ho riso davvero tanto per gran parte dei 105 minuti del film.
E ancora di più nell’ultimo quarto d’ora, incluso lo spumeggiante epilogo (ma è davvero finita la storia?).
Sono perfettamente consapevole che in questa prima visione ho colto soltanto in minima parte tutti i dettagli di cui questo film è pregno. Con “Beetlejuice” ogni volta che lo rivedevo, anche dopo la quarantesima, mi capitava sempre di individuarne qualcuno che mi era sfuggito. Mi aspetto che accada lo stesso con “Beetlejuice Beetlejuice” e non vedo l’ora di poter mettere le mani sul Blu-ray.
Speriamo esca presto, come pure spero che pubblichino una versione CD della colonna sonora per aggiungerla alla mia collezione.
Concludo dicendo che sono davvero felice di constatare che il cinema, quello vero, esiste ancora grazie a menti esplosive e folli come quella di Tim Burton.
Viva il cinema, viva Tim Burton, viva Beetlejuice!
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