Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carla (del 25/02/2012 @ 07:50:59, in Serie TV, linkato 3249 volte)
Da poco più di tre settimane è approdata su Fox la serie TV "Homeland - Caccia alla spia". Ideata dai creatori di "24", questa serie thriller vincitrice del Golden Globe come migliore serie drammatica, che vede come protagonisti la splendida Claire Danes (vincitrice del Golden Globe come migliore attrice in una serie drammatica) e Damian Lewis, narra la storia di un marine, Nicholas Brody (interpretato da Lewis), che dopo otto anni di prigionia nelle mani di Al-Qaeda, viene all'improvviso trovato dai suoi compatrioti e riportato in patria, dove è destinato a diventare un eroe nazionale. Nel frattempo, però, la giovane agente della CIA, Carrie Mathison (interpretata dalla Danes), ha scoperto in seguito ad una soffiata che un prigioniero di guerra è passato dalla parte del nemico. Quando poi viene a sapere della vicenda del tenente Brody, è convinta che sia lui il potenziale terrorista. Devo ammettere che non ero particolarmente attratta dalla storia, per come veniva presentata su Sky, e ho deciso di registrare le prime puntate per poi vedermele con comodo. L'ho fatto questa settimana. Ne ho visto quattro in due giorni e ne sono rimasta folgorata. Non si tratta di un semplice action-thriller, come si potrebbe immaginare trattandosi degli stessi creatori di "24". Prima di tutto lo show è ispirato alla serie israeliana "Hatufim (Prisoner of War)", inoltre risulta essere fortemente incentrato sugli aspetti psicologici dei due protagonisti. Da una parte c'è Carrie, brillante ma problematica agente della CIA. Conosciuta nell'agenzia per i suoi metodi poco ortodossi e per il suo essere indisciplinata, la donna nasconde un grande segreto: è affetta da una malattia mentale per la quale si cura di nascosto con degli psicofarmaci. Per Carrie la vita è incentrata completamente sulla lotta al terrorismo. Non ha una vita privata degna di questo nome, né veri amici (a parte forse il suo mentore Saul Berenson, interpretato da un grande Mandy Patinkin), né una vita sentimentale che vada oltre degli incontri occasionali. Dall'altra parte c'è Nick Brody, fortemente traumatizzato dopo una prigionia di otto anni, in cui è stato costantemente torturato e costretto a fare le peggiori cose. Ha dalla sua una famiglia: una moglie, che lui sospetta abbia una storia col suo migliore amico, una figlia adolescente, con tutti i problemi della sua età, e un figlio più piccolo, che non si ricordava neppure di lui. Il ritorno a casa è estremamente difficile. Perseguitato da incubi e flashback, ha difficoltà a ristabilire un rapporto sereno con i suoi cari, con i quali sa di non poter aprirsi, perché è convinto che non potrebbero capire. Il suo personaggio è ambiguo. Non si capisce se la sua "doppiezza" sia dovuta ai traumi subiti o sia la prova che si è convertito alla causa di Al-Qaeda. Effettivamente non è del tutto sincero con la CIA, ma non ci sono prove reali di un suo coinvolgimento con alcuni avvenimenti recenti, che sembrano presagire la preparazione di un attentato in suolo americano. Carrie, però, sente che Brody è coinvolto e, andando contro gli ordini, decide di scavare nella sua vita, avvicinandosi forse un troppo a lui. Da questa pericolosa interazione potrebbero, però, venire fuori dei risvolti del tutto inaspettati. Adesso non ci resta che continuare a seguire la storia, per vedere come andrà a finire.
"Homeland - Caccia alla spia" va in onda ogni lunedì alle 21.50 su Fox (replicato una e due ore dopo su Fox+1 e Fox+2).
Il mio primo amore è e rimane il cinema. Alla scrittura sono arrivata in seguito ad esso. Sin da ragazzina adoravo perdermi dentro un film sul grande schermo. Era come staccarsi dalla propria vita e viverne tante altre, anche se solo per due ore scarse. Ad un certo punto, negli anni '80 (ero poco più di una bambina), iniziai a pensare che mi sarebbe piaciuto lavorare nel cinema, ma con questo intendevo quello americano, Hollywood. Qualsiasi cosa mi sarebbe andata bene, persino portare il caffè al regista. Il mio sogno era poter far parte in qualche modo di quella magia. Ma se uno deve sognare, tanto vale che lo faccia in grande, no? E allora iniziai ad immaginare di essere una regista, o meglio una regista, autrice del soggetto e sceneggiatrice: insomma la mente da cui scaturisce un film. Dal lato pratico, però, la cosa non era molto realizzabile (a parte qualche tentativo con le compagne di scuola e la mia prima telecamera), ma davvero niente poteva impedirmi di scrivere delle storie per il cinema. Poco importava se fossero rimaste lì nel cassetto. Il bello era creare delle storie. Da qui inizia il mio interesse per la scrittura, come strumento per dare vita alle mie storie. Il primo approccio con essa è stata proprio la sceneggiatura. Tra il 1993 e il 2000 ne ho scritto tre, che sono ancora lì nel mio cassetto (sono andate un po' in giro, ma poi si sono perse) e sono tuttora per me fonte di soddisfazione. Poi sono passata alla narrativa e, visto il mio legame col cinema, il primo approccio a questa forma di scrittura creativa sono state le fan fiction. Tra queste ce n'è una, completamente scritta da me (unica che ho portato a compimento) nella prima metà del 2000 e che vi presento oggi in una veste nuova. S'intitola "La morte è soltanto il principio" ed è ispirata al film "La Mummia" di Stephen Sommers del 1999 (Universal Pictures). Ve lo ricordate? Fu un campione d'incassi e si trattava dell'ennesimo remake del film omonimo del 1932, sempre della Universal, in cui, però, la parte horror era stata messa da parte, lasciando spazio all'avventura e all'azione, oltre che a un bel po' di ironia. Io ci andavo matta. Gli avevo dedicato un sito web ancora prima di vederlo e poi l'avevo visto al cinema due volte (cosa rarissima per me). Avevo creato un gruppo di fan su Yahoo! (dedicato al film, ma in cui si parlava in gran parte di Arnold Vosloo, l'attore che intepretava Imhotep, cioè la mummia), grazie al quale ho conosciuto delle care amiche, che sono tuttora tali. Avevo, inoltre, letto il libro tratto dalla sceneggiatura (sempre due volte) e così avevo pensato al modo in cui avrei continuato la storia, prima ancora che il suo sequel venisse girato (cosa che accadde nell'estate del 2000). È così che nacque "La morte è soltanto il principio". Lo stesso titolo è una citazione di una battuta del film. Ci lavorai per sei mesi, lo pubblicai nel mio sito su "La Mummia", insieme ad altre fan fiction, scritte dalle altre fan. Ed è rimasto lì per tutto questo tempo, finché il mese scorso ho deciso di rimmetterci mano. L'ho riletto e corretto, senza però alterarlo più di tanto. Mi sono limitata ad eliminare i refusi e poche altre cose. Ho creato una copertina. L'ho formattato per bene e adesso l'ho pubblicato su Smashwords (ovviamente è gratuito). Sebbene mi renda conto che non rispetta certo tutte le regole, che un romanzo dovrebbe avere (in 12 anni il mio stile è fortunatamente migliorato), ho voluto lasciarlo così come l'avevo concepito: con un taglio cinematografico molto essenziale (leggendolo si nota subito che venivo dalla scrittura di sceneggiature), con personaggi non particolarmente approfonditi, ma con lo stesso ritmo vorticoso (in alcuni casi letteralmente) e la stessa ironia (comicità?) del film. O almeno credo di esserci riuscita. Potete trovarlo qui www.smashwords.com/books/view/138178, dove può essere scaricato in tutti i principali formati ebook e di testo. Purtroppo nelle versioni epub e mobi il titolo del libro sul lettore non si legge benissimo, perché il convertitore di Smashwords fa a pugni con le lettere accentate nei titoli (mi sto rivolgendo all'assistenza del sito per vedere se si può fare qualcosa). L'interno dell'ebook, invece, è perfetto e devo dire che nel Kindle fa proprio una bella figura. Penso si veda altrettanto bene in altri lettori. Nel caso decidiate di cimentarvi in questa lettura (è un romanzo abbastanza corto), vi consiglio di rivedere il film o ripassare un po' la trama, altrimenti rischiate di non cogliere le decine di citazioni che vi ho inserito e la cura in cui ho ricostruito certe ambientazioni identiche all'originale. La storia in sé diverge completamente da quella del vero sequel, che non mi piacque per nulla, così come il finale. Siete curiosi? Ecco la quarta di copertina (virtuale):
"Londra, 1926 d.C. Quando Evelyn Carnahan rivede dopo alcuni anni la sua vecchia amica d'infanzia Anne Howard, si rende subito conto di quanto sia cambiata. La ragazza perennemente annoiata e insofferente, che ricordava, si è trasformata in una giovane donna sicura di sé, per niente addolorata dalla recente morte del marito Robert MacElister, avvenuta in circostanze misteriose durante una campagna di scavi in Egitto. Inoltre, al suo ritorno a Londra dopo questo viaggio, la giovane vedova ha portato con sé, oltre che una grande quantità di reperti da esporre al British Museum, uno strano egiziano di nome Assad, indossante il tatuaggio dei Med-Jai, gli antichi guardiani di Hamunaptra, la Città dei Morti scoperta non molto tempo prima proprio da Evelyn, suo fratello John e Rick O'Connell. Non tutto quello che Anne ha rinvenuto ad Hamunaptra, però, è stato esposto durante la mostra. Due sono gli artefatti, che la donna ha deciso di tenere per sé: una mummia malridotta e un libro nero, che necessita di una chiave per essere aperto. Ma ciò che Anne e Assad non sanno è che nel loro viaggio di ritorno sono stati seguiti anche da un'oscura presenza in cerca di una vendetta vecchia di tremila anni. Nel tentativo di risolvere questo nuovo mistero, i fratelli Carnahan e l'americano Rick O'Connell dovranno ben presto scontrarsi con forze sovrannaturali di gran lunga al di sopra della loro portata e saranno costretti, loro malgrado, a combattere ancora una volta per salvare il mondo. Nel farlo, però, troveranno in un vecchio nemico un inatteso e potente alleato."
Siete ancora curiosi? E allora cliccate qui per scaricare il libro. Buona lettura!
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Essere in grado di leggere sia in italiano che in inglese è sicuramente un vantaggio per il lettore, in quanto aumenta in maniera esponenziale il materiale letterario di cui può disporre, ma lo è anche per lo scrittore, poiché gli permette di espandere i propri orizzonti e conoscere realtà completamente diverse. In particolare ci si rende conto di quali enormi differenze esistano tra l'editoria italiana e quella anglofona, che comprende cioè tutti i paesi di lingua inglese, e come sia diverso l'approccio del web nei suoi confronti. Parlo in dettaglio di quelli che genericamente vengono chiamati blog letterari, cioè i blog che parlano di scrittura, dei romanzi, degli autori, di editoria e di tutto ciò che orbita intorno alla letteratura. In questo ambito si notano a mio parere delle differenze lampanti, non solo negli argomenti, ma anche nel modo in cui vengono affrontati. Il discorso, però, sarebbe troppo lungo, in questo post mi voglio quindi soffermare su uno di questi argomenti: gli autori esordienti o gli aspiranti tali, cioè quegli scrittori che hanno pubblicato il loro primo libro o stanno cercando di farlo. Leggendo articoli che li riguardano, si nota prima di tutto che tra i blogger italiani c'è una diffusa tendenza a guardare a questi un po' dall'alto in basso. Si guarda con un certo sospetto queste persone che si affacciano all'editoria, supponendo già da subito che non abbiano la minima esperienza, che siano presuntuosi, che non abbiano chissà quale talento (soprattutto se sono autori indipendenti), che abbiano scritto solo quell'unico libro pubblicato (o che intendono pubblicare) e che magari non conoscano a dovere neppure la grammatica o la sintassi. Insomma, ci si trova di fronte a una marea di pregiudizi. È vero che da sempre ciò che è sconosciuto viene spesso mal visto o visto con sospetto, ma talvolta oggettivamente si esagera. Per non parlare poi della disdicevole abitudine di chiamare gli autori non ancora pubblicati con l'infelice espressione "aspiranti scrittori", cosa che trovo denigrante, quasi a voler dire che non è gente che scrive, ma che pensa di farlo prima o poi. Chiariamo le cose: non si diventa scrittori da un giorno all'altro. Non è che un giorno ti svegli e aspiri a diventare uno scrittore, poi il giorno dopo inizi a scrivere. Non funziona così. Noi tutti impariamo a scrivere da bambini e alcuni di noi, senza neppure rendersene conto, prima o poi iniziano a scrivere delle storie. Altri invece non lo fanno. Punto. Non esiste un momento nella vita in cui aspiriamo a scrivere delle storie. Iniziamo semplicemente a farlo, oppure no. Chi lo fa è uno scrittore, chi non lo fa non lo è. L'aspirante scrittore non esiste. Esiste essere uno scrittore o non esserlo. Si può semmai aspirare a essere un autore, nel senso di desiderare di completare uno scritto. È infatti relativamente facile iniziare a scrivere qualcosa, lo è meno portarla a termine. Ma nel momento in cui si completa la scrittura del primo racconto, o del primo romanzo, o della prima sceneggiatura ecc... di fatto si diventa autori. A questo punto si può essere al massimo aspiranti autori pubblicati. Perciò l'alludere a un autore non pubblicato con l'espressione "aspirante scrittore" è a mio parere abbastanza offensivo, poiché sembra quasi che si pensi che la persona in questione non scriva affatto, ma abbia solo il desiderio (il sogno?) di farlo, magari per diventare famoso. Ma, se una persona non scrive abitualmente, senza ombra di dubbio non potrà essere un buon scrittore nel momento in cui decida di farlo, perché non ne ha l'esperienza. Ma l'aspirante autore pubblicato, come pure l'autore esordiente (alla prima pubblicazione), è tutt'altro che una persona priva di esperienza. Sicuramente quel romanzo (pubblicato o no) non è l'unica cosa che ha scritto. Probabilmente ne ha scritto altri, come pure racconti, fan fiction, poesie e tante altre cose, molte delle quali magari brutte (le prime), altre migliori. Dietro un autore esordiente esiste tutto un mondo di scrittura, che magari risale alla sua adolescenza o addirittura prima, esistono mille esperimenti e tentativi, tutte cose che costituiscono la sua esperienza nel campo della scrittura, qualcosa che non deve essere in alcun modo sottovalutata. Se, dopo tutto questo, decidono di tentare la pubblicazione di un certo romanzo, è perché esso rappresenta l'apice del lavoro fatto negli anni passati, alimentato dalla loro passione per la parola scritta. Potranno ancora essere ben lontani dalla perfezione (senza dubbio), ma è impossibile che ci troviamo di fronte a gente che non conosce discretamente la lingua italiana. E già questo non è poco. Perciò dico che meritano rispetto. Purtroppo ciò che vedo spesso e volentieri è il tentativo da parte di certi "critici" di mettere i bastoni fra le ruote a questo tipo di autori. Se hanno pubblicato qualcosa, si cerca costantemente di trovare il pelo nell'uovo nel loro libro, di mettere in luce i difetti, invece di concentrarsi sugli aspetti positivi dell'opera. Invece nei confronti di chi non ha ancora pubblicato (e in questo caso mi riferisco agli articoli generici rivolti agli "aspiranti scrittori") si fa di tutto per ricordare a questi autori che scrivere bene è difficile, anzi quasi impossibile, che è faticoso, che non conoscono alla perfezione la grammatica (?), che ci sono mille mila regole di stile che devono seguire, che dopo aver scritto la prima stesura hanno ben poco da esserne lieti, perché sicuramente fa schifo... e così via. In entrambi i casi si cerca in tutti i modi di scoraggiare lo scrittore. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché questo accanimento? Le risposte potrebbero essere tante. Forse perché queste persone si divertono a criticare gli altri. Oppure perché sanno a menadito quello che non si deve fare quando si scrive, ma non hanno idea di quello che si deve fare (altrimenti, forse, scriverebbero anche loro romanzi e non critiche, no?). Oppure proprio perché pure loro, essendo esordienti o aspiranti tali, si sentono minacciati dalla concorrenza? Non è da escludere. Oppure ancora si tratta di autori delusi o disullusi nei confronti dell'editoria in generale tanto che non possono fare a meno di scoraggiare gli altri a intraprendere la stessa strada (della serie: datevi all'ippica, magari avete più speranze; oppure: io non ce l'ho fatta e non voglio che ce la facciate neppure voi). Sicuramente ognuno avrà le sue motivazione (più o meno accettabili), ma di certo ciò che fanno non aiuta gli scrittori che li leggono. Li indispettisce, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, li scoraggia. È un po' come se a un bambino, che vi mostra il suo disegno, voi diceste "Ma cos'è questa cosa? Non si fa così! Non sei proprio capace!", invece di dirgli "Bravo!", apprezzando cioè lo sforzo di una persona che sta crescendo, evitando di stroncare sul nascere una passione che potrebbe diventare importante per lui e soprattutto incentivandolo a migliorarsi. Ovviamente sto parlando di scrittori che sanno scrivere in un italiano corretto e che, se fanno errori, sono solo incappati in qualche refuso. In tutto questo discorso non prendo neppure in considerazione chi ha delle grosse lacune di grammatica e sintassi e neppure se ne rende conto. Ora, a questo proposito, spostandosi nell'area anglofona, ecco che saltano agli occhi le differenze. I cosiddetti blog letterari, prima di tutto, sono tenuti quasi sempre da autori, persone cioè che scrivono libri e che vogliono condividere con altri scrittori ciò che hanno imparato dalla loro esperienza. Lo scopo è ovviamente farsi conoscere e volere bene, per trovare nuovi lettori e vendere più libri. È comprensibile. Il risultato, però, non solo è piacevole, ma anche utile. Questi blog sono delle fonti inesauribili di spunti, per conoscere meglio tutti gli aspetti della scrittura, sia per quanto riguarda la parola in sé (quindi lo stile) che la vera e propria capacità di narrare delle storie, cioè la struttura narrativa. Leggendo questi articoli si imparano veramente tantissime cose, anche se si scrive in una lingua diversa (nel mio caso in italiano). Al di là delle eccezioni, che comunque esistono (meno male), la mia domanda è: perché questa differenza tra il web italiano e quello anglofono? Sinceramente sto cercando ancora di capirlo, ma di certo so a quale dei due preferisco rivolgermi.
Di Carla (del 19/03/2012 @ 00:16:44, in Lettura, linkato 3800 volte)
Un indimenticabile viaggio nella storia della Grande Mela
In questo bellissimo libro, Edward Rutherfurd, specialista delle saghe familiari, ci racconta la storia della più importante città americana (nonché una delle più affascinanti in tutto il mondo), vista attraverso le vicende della famiglia Master, dal momento in cui è stata fondata dagli olandesi (col nome di Nuova Amsterdam) fino ai giorni nostri. Rutherfurd, originario di Salisbury, a cui dedicò un libro negli anni '80 (il bellissimo "Sarum"), si cimenta questa volta nel narrare le vite dei suoi personaggi in quella che è la sua città d'adozione, New York. Per quanto la storia in sé svolga un ruolo fondamentale in questo romanzo, lasciandoci intravvedere l'enorme lavoro di ricerca fatto dall'autore, la sua presenza è però discreta, non invandente, anche perché presuppone che chi legga il libro ne abbia già una qualche conoscenza, alla quale vengono però aggiunti interessanti dettagli. La storia è comunque solo lo sfondo su cui si muovono i Master, mostrandosi a noi a volte direttamente e altre volte attraverso gli occhi di personaggi ad essi legati. Tramite questa famiglia impariamo a conoscere le contraddizioni e la complessità della società americana, dal momento della sua nascita fino a oggi, in particolare quelle legate alle minoranze etniche e religiose, diverse fra di loro (pellerossa, neri, irlandesi, tedeschi, italiani, ebrei), ma tutte accomunate dalla discriminazione a cui nel corso dei secoli sono state sottoposte. Alcune di queste sono storie a lieto fine, altre di rassegnazione alla condizione dei loro protagonisti. Tutte quante sono però appassionanti e ti tengono incollato alle pagine, per conoscerne il loro esito e scoprire alla fine come queste siano legate da un unico filo conduttore rappresentato da una cintura di conchiglie, una piccola opera d'arte simbolo dell'amore di una figlia per suo padre. Particolarmente emozionanti sono i capitoli finali ambientati nello scorso decennio, nei quali è forse più facile immedesimarsi, poiché si basano su eventi ancora freschi nella nostra memoria, come l'11 Settembre. Qui a mio parere l'autore dà il meglio di sé trasportandoci dentro quella New York, nella mente e nell'anima delle persone che hanno vissuto quei tragici momenti, proprio perché lui stesso li ha vissuti e la differenza rispetto alla narrazione dei secoli precedenti appare evidente. Che amiate o meno New York, che amiate o meno le ricostruzioni storiche, di certo non potete rimanere indifferenti a quest'opera corposa, ma del tutto scorrevole. La piacevole sensazione che si prova alla fine della lettura, mista di soddisfazione e malinconia, è tipica in fondo solo dei libri migliori.
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Di Carla (del 24/03/2012 @ 05:38:05, in Cinema, linkato 2878 volte)
Come ho già scritto in passato ho un amore viscerale per il cinema. Non è semplicemente che mi piace: lo adoro proprio. E penso che non ci sia niente di meglio del cinema che racconta se stesso. Avevo sentito parlare per la prima volta di "The Artist" al tempo del Festival di Cannes 2011. Come molti ero scettica nei confronti di un film francese del 2011 in bianco e nero e muto. Ma in realtà non mi ero informata abbastanza, complice la scarsa pubblicità che questo film ha avuto in Italia sia prima che dopo la sua uscita ufficiale, avvenuta lo scorso dicembre, alla quale è seguita una distribuzione quasi nulla. Ammetto che non ne sapevo molto, a parte una vaga infarinatura della trama: la storia di un attore del muto che si trova in grande difficoltà nel momento in cui il cinema passa al sonoro. Non avevo colto la potenzialità di un'opera del genere. Evidentemente non ero l'unica, visto che, come dicevo, del film si è visto ben poco nei cinema italiani al tempo della sua uscita, tanto che ero convinta che non fosse affatto uscito. Poi c'è stata le nomination agli Oscar, la vincita dei Golden Globe ed ecco che si è iniziato veramente a parlarne. Ma solo con la travolgente vittoria alla notte degli Oscar, che ha riguardato categorie importantissime - costumi, colonna sonora, regia, attore protagonista e soprattutto miglior film -, le cose sono finalmente cambiate. La prima volta che un film francese diventa il miglior film premiato dall'Academy è senza dubbio un evento storico. E ricordo che parliamo di un film in bianco e nero e muto, nell'era del tridimensionale. Può sembrare qualcosa di rivoluzionario e in un certo senso lo è, ma basta vederlo per capire senza ombra di dubbio il perché di questo successo. E posso dire che sono stata fortunata a riuscire a vederlo sul grande schermo, visto che è stato distribuito decentemente (senza esagerare) solo dopo che ha vinto l'Oscar (cosa che non stupisce, dopo il caso di due anni fa di "The Hurt Locker", che al momento della vittoria era già su Sky, dopo una brevissima apparizione nelle sale), e nella mia città, su quattro multisala, solo uno l'ha portato e tenuto per poche settimane. Sono stata fortunata, perché un film del genere va visto al cinema, proprio per come è stato fatto: muto (quasi del tutto), in bianco e nero e persino in formato 1,33:1 (i 4:3 dei vecchi televisori), perché al tempo del muto non esisteva il formato panoramico. Solo sul grande schermo si può apprezzare al meglio la maestria con cui è stato creato. Esso infatti, come dicevo, è sì il classico cinema che racconta sé stesso, ma non solo con la storia (ambientata a Hollywood), bensì addirittura con la parte tecnica. Il regista si è divertito a giocare con le espressioni degli attori, per riprodurre ciò che si faceva negli anni venti del secolo scorso, con la musica, che è proprio come quella di allora, con il formato dell'immagine, con i titoli volutamente ridicoli (ingenui) dei film citati, con l'assenza di immagini "inappropriate" (neanche un bacetto sulle labbra tra i protagonisti!), con le scritte che riportano battute e suoni, oltre che i titoli di testa e coda, che sembrano venire direttamente dal passato, con le immagini leggermente accelerate, con l'assenza del suono e la sua improvvisa comparsa. Viene raccontato il cinema così bene che il film si apre con una scena in un cinema, con il pubblico tutto agghindato, lo schermo col nostro protagonista in versione agente segreto e l'orchestra delle grandi occasioni, che suona dal vivo la colonna sonora. Ragazzi, questo è cinema allo stato puro. Questa è arte. È il cinema che fa quello che sa fare meglio e che ne rappresenta l'essenza: raccontare una storia con le immagini. L'assenza di dialoghi ti costringe a concentrarti sui dettagli. Perdere una sola espressione significa rischiare di non capire qualcosa della trama. L'immagine ti assorbe e nel silenzio della sala, tu non sei più lì, ma dentro lo schermo. E quando la scritta "BANG" appare, tu sussulti, preoccupato di ciò che può essere accaduto, più di quanto potrebbe succedere col più sofisticato effetto sonoro creato al computer. E ti commuovi. Questa è emozione pura, quella che solo il cinema riesce a darti.
Nella foto: Jean Dujardin (vincitore dell'Oscar come miglior attore protagonista) e Bérénice Bejo.
Di Carla (del 31/03/2012 @ 04:25:58, in Lettura, linkato 4381 volte)
Il tic. La pausa.
Molto legal e poco thriller, questo romanzo di Grisham torna dopo "L'ultimo appello" e "Innocente" a parlare di pena di morte e a denunciare il sistema giudiziario americano, degli stati in cui è ancora applicata, per il modo in cui viene di fatto usata a scopo politico e con eccessiva leggerezza. Lo slogan riportato sulla copertina ("Un innocente sta per essere giustiziato. Solo un criminale può salvarlo") fa pensare erroneamente a un thriller, sebbene così venga definito. In realtà questa storia inventata, ma del tutto plausibile (ed è questo che fa paura), ancora una volta parla della gente, nel bene e soprattutto nel male. I suoi personaggi sono dannatamente reali, a iniziare da Travis Boyette, quello che confessa, che con i suoi tic e le sue pause, la sua personalità controversa di criminale con i sensi di colpa, perché qualcuno sta pagando per un suo reato, provoca nel lettore fastidio, disgusto, ma anche pena. Non è il classico cattivo, ma un personaggio che vive nella zona d'ombra tra la luce e il buio, qualcuno nel quale nonostante tutto ci si può immedesimare. Qui si vede la bravura di questo scrittore, che con il raggiungimento di una fama stabile può prendersi la libertà di raccontare le sue storie, che come nella realtà non hanno un colpo di scena finale né un lieto fine. Ma sono vere, quasi più della realtà. Per quanto la trama si sviluppi intenzionalmente in maniera lenta, saltando da un luogo all'altro, non si perde affatto la concentrazione, ma si rimane catturati da essa fino alla fine. E per quanto lasci l'amaro in bocca, allo stesso tempo c'è qualcosa di consolatorio, che ci fa chiudere il libro con un senso di soddisfazione. Quella che si prova solo dopo aver letto un buon libro.
Io confesso (edizione cartacea), Io confesso (ebook per Kindle), The Confession (cartaceo inglese) e The Confession (versione Kindle inglese) su Amazon.it. John Grisham su Amazon.com con link a tutti in libri in lingua inglese in formato Kindle.
Leggi tutte le mie recensioni e vedi la mia libreria su aNobii: http://www.anobii.com/anakina/books
Per la prima volta (e sicuramente non l'ultima) il blog ospita un post scritto da un altro autore. Si tratta di un'amica scrittrice e copywriter Stefania Mattana, che dedica questo articolo alla mia amata città, Cagliari.
Ho affermato varie volte in giro per la blogosfera che non mi dispiacerebbe, un giorno, trasferirmi a Cagliari. E se per molti cagliaritani o "adottati" la cosa può sembrare logica e naturale, per molti non lo è. A volte, infatti, non è facile spiegare a un sardo-del-nord (passatemi il neologismo) anche il solo desiderio di abbandonare il nido barbaricino e - parlo per me - mettere radici a Cagliari. Ho quindi elaborato cinque, rapidi, buoni motivi per cui metterei subito la firma per spostarmi nel capoluogo dell'isola.
1) Il clima favoloso. Se siete animali a sangue freddo come me, Cagliari è la città (più o meno) senza inverno. A parte il vento che a volte soffia freddo, non c'è traccia di gelo, ghiaccio, neve. È vero, d'estate il caldo è umido e le zanzare possono pesare quanto cuccioli di chihuahua, ma sono circostanze con cui si può convivere. Con il freddo non si convive, si subisce.
2) I parchi. Cagliari è piena di verde e di spazi fruibili per attività all'aria aperta. Volete un elenco? Colle San Michele, Monte Urpinu, Monte Claro, il Faro di Sant'Elia e altri giardini e giardinetti. Siete tossicodipendenti dalla corsa come me? I percorsi per i runner e le strutture sportive non mancano, come lo stadio di atletica a Sa Duchessa, quello dell'Amsicora - quando verrò a Cagliari proverò l'hockey - e quello di Viale Diaz.
3) L'Arte. E per Arte non intendo solo i grandi musei, ma anche camminare nel centro storico di Cagliari, con il suo lungomare tra i più belli d'Italia. Inoltre, bastano pochi chilometri fuori dalla città per tuffarsi nella storia antica: fenici, aragonesi, romani, pisani e tanto altro. Se dici Cagliari, dici storia.
4) Eventi culturali. Non sono di certo una donna da balletto e opera lirica, ma sapere che Cagliari ha un prestigioso teatro mi infonde una sorta di "sicurezza". Le manifestazioni culturali a tutto tondo abbracciano Cagliari come una mamma sapiente: dalle mostre ai concerti ai convegni, la città pulsa di iniziative. E dove c'è cultura, c'è vita.
5) Il Mare e i fenicotteri. Scontato, scontatissimo, eppure verissimo. Avere il mare a qualche minuto da casa, per me, è una sensazione impagabile. Oltre alla lunghissima spiaggia del Poetto, bastano una manciata di chilometri in auto per raggiungere angoli di paradiso. Spesso e volentieri, poi, quando mi trovo a Cagliari vedo i fenicotteri, che abitano stagionalmente negli stagni della città. Una volta, mentre ero imbottigliata nel traffico, un piccolo stormo di fenicotteri rosa è volato sopra la mia testa, e ho capito qual è la differenza tra le grandi città del mondo e Cagliari.
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Nata e cresciuta in Sardegna, Stefania Mattana da grande voleva vincere un'Olimpiade e fare la scrittrice. Ufficialmente sociologa dal 2008, scrive da sempre racconti e storielle, ma alla fine trova le sue prime pubblicazioni nella saggistica, con "The Live Side of Rock" e "Ritualità della Morte in Barbagia". La passione per la scrittura e per l'analisi sociale si fondono infine nel suo lavoro di copywriter. Praticante patologica di sport, appassionata e tifosa, scrive per diverse testate e blog online, specialmente di atletica leggera e rugby. Website: www.eraniapinnera.com Blog: http://dailypinner.eraniapinnera.com Google Plus: http://plus.google.com/u/0/108955659477495416526
Grazie mille a Stefania per il suo contributo!
Di Carla (del 06/04/2012 @ 06:35:29, in Lettura, linkato 4850 volte)
Ma perché non siamo ancora andati su Marte?
È la domanda che mi è sorta spontanea più volte, leggendo questo saggio originariamente datato 1996. Sono passati 16 anni e ancora nessun uomo è arrivato su Marte, né se ne parla come una cosa che avverrà in tempi brevi. Eppure, leggendo questo libro del fondatore della Mars Society, la tecnologia per arrivarci, esplorarlo e tornare indietro c'è già. Anzi, c'era già 16 anni fa. Ma allora perché siamo ancora tutti qui? Bella domanda, ma ad essere bello è ancora di più questo libro, che è assolutamente un must per qualsiasi amante dell'astronomia e anche della fantascienza. Tempo fa avevo letto "First Landing" dello stesso autore. Quella volta si trattava di un romanzo, ma che immaginava una missione sul pianeta rosso utilizzando la tecnologia effettivamente esistente al tempo (per la cronaca il romanzo è stato pubblicato nel 2001). In questo saggio invece Zubrin affronta l'argomento da un punto di vista più tecnico, ma non per questo meno godibile. La mole di informazioni fornite è davvero enorme. Va da quanta energia serve per lasciare l'orbita terrestre, a come produrre carburante, acqua e ossigeno su Marte, passando per la costruzione di serre sul pianeta (per coltivare le piante), per i costi dei terreni durante la colonizzazione, fino addirittura alla terraformazione. Nel leggerlo si realizza veramente che siamo di fronte a un pianeta molto simile alla Terra, sebbene più piccolo, relativamente molto vicino, ricco di risorse e di conseguenza con tutte le caratteristiche necessarie non solo per essere colonizzato, ma anche per essere trasformato in tempi umani in un luogo ben più confortevole, più simile al nostro pianeta. Inoltre ci si rende anche conto di come una conquista del genere avrebbe delle ripercussioni enormi sullo sviluppo della civiltà umana, sia sulla Terra, che in prospettiva di una nostra ulteriore conquista dello spazio. Vengono anche affrontati tutta una serie di argomenti di natura socio-politica, poiché questo libro oltre a informare ha lo scopo di fare propaganda per spingere chi ha il potere per farlo a trasformare questi progetti in realtà. Può sembrare a prima vista come una battaglia contro i mulini a vento, vista l'enormità della faccenda, ma Zubrin ci spiega in maniera dettagliata (talvolta molto tecnica, ma sempre comprensibile), quanto la conquista di Marte sia del tutto alla nostra portata. Se siamo arrivati sulla Luna oltre 40 anni fa, in un ambiente a gravità zero, senza atmosfera, né risorse, caratterizzato da temperature estreme, e siamo tornati indietro con successo, perché Marte adesso continua a sembrarci così irraggiungibile? Il fatto che sia lontano non è un motivo sufficiente, visto che ci vogliono da sei a dieci mesi di viaggio per arrivarci. Sono più dei tre giorni per arrivare sulla Luna, ma in proporzione sono davvero pochi considerando che si parla di viaggiare attraverso 400 milioni di chilometri. Tutti gli altri timori, che Zubrin spiega uno dopo l'altro, non sono meno inconsistenti. E allora perché non siamo ancora andati su Marte? Questo libro non ha la risposta, ma è in grado di spiegarci in dettaglio come, prima o poi, ci andremo.
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Di Carla (del 13/04/2012 @ 07:47:21, in Lettura, linkato 2954 volte)
Perché?
Questa semplice domanda mi aleggiava in testa durante tutta la lettura del romanzo. Seguivo le vicende ripetitive e dolorose di questo protagonista senza nome, tempo o luogo preciso (un transessuale sado-masochista) e mi chiedevo dove l'autore volesse andare a parare. Sicuramente riesce a colpire il lettore con il suo linguaggio crudo nel descrivere alcune scene, ma il coinvolgimento si perde più volte durante le pagine e pagine di monologo interiore, in cui il protagonista letteralmente vomita tutto il suo disagio psicologico. E qui fa capolino la noia. Eppure ci sono delle belle scene, soprattutto nei flashback, dove succede qualcosa, dove le emozioni dei personaggi giungono nitide al lettore, senza che vengano inutilmente spiegate, in altre però le continue interruzioni del pensiero del protagonista diventano irritanti. I ricordi inoltre non riescono a chiarire del tutto cosa porti esattamente il personaggio alla condizione in cui si trova al tempo della narrazione. Si ha la sensazione che continui a mancare qualche tassello. A ciò vanno aggiunti degli eventi che neppure la sospensione dell'incredulità può spiegare, tipo omicidi impuniti, equipaggiamenti da CIA nelle mani di una cassiera che va matta per il gossip e nel contempo fa lunghi monologhi usando un linguaggio che non sembra calzarle per nulla (forse perché non lo farebbe con nessuno). Per non parlare della totale assenza di persone almeno vagamente normali in tutta la storia, giusto per dare un minimo appiglio realistico, a cui il lettore posse ancorarsi. Arrivati verso la fine si spera se non altro in un cambiamento. In fondo se si racconta una storia sotto forma di romanzo, qualcosa deve pur succedere. E invece no. Ci sono i pressupposti per il cambiamento, ma il protagonista ci rinuncia e decide (non si capisce bene perché) di continuare a "vivere" in quel modo. È normale che poi alla fine uno si chiede il perché di tutto ciò. L'unica spiegazione che mi viene in mente è che l'autore abbia scritto questo romanzo divertendosi a mischiare le carte e a presentare vicende del tutto improbabili, proprio per spiazzare il lettore. Di certo è riuscito in questo intento, ma siamo sicuri che questo sia piaciuto al lettore? A me non particolarmente. Mi ha lasciato per lo più perplessa. Spero non me ne voglia l'autore. Mentre leggo le ultime righe, però, ecco che arriva l'illuminazione. Immagino di sfrondare pagine e pagine di concetti ripetuti e monologhi interiori, di ridurre all'osso i dialoghi, e ottenerne una bella novella di un'ottantina di pagine o magari un racconto ancora più piccolo. Così avrebbe avuto un senso.
Una breve nota sull'edizione. A parte i numerosi refusi, non capisco alcune scelte di punteggiatura sul discorso diretto. Non so se dovute all'autore o all'editor. Lo stile del primo, se non altro, è interessante.
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Di Carla (del 22/04/2012 @ 13:33:29, in Lettura, linkato 6202 volte)
Alla riconquista dell'Egitto
Leggere un libro di Jacq è come visitare un vecchio amico. Sebbene le storie siano diverse, le atmosfere, il carisma dei personaggi, i sentimenti descritti e la loro fierezza convergono nel raccontarci la personale visione che l'autore ha dell'antico Egitto, un po' mitica, un po' magica e po' storica. La figura del faraone nubiano, per quanto si discosti in origini e indole da quella tanto celebrata di Ramses o a quella dei faraoni della trilogia de "La regina libertà", finisce inesorabilmente per conformarsi all'immagine maestosa, fiera e allo stesso tempo divina dei suoi predecessori, raggiungendo la loro stessa credibilità, così come avviene per la sua regina. Accanto a lui si sviluppano tutta una serie di personaggi, che a loro volta ricordano quelli già visti in altri libri. Nonostante il ripetersi di questo schema nella maggior parte dei suoi romanzi, la storia non annoia, in quanto l'autore trova sempre nuovi espedienti per raccontarcela e soprattutto mostrarci gli aspetti più sconosciuti di questa grande civiltà del passato che da sempre affascina l'immaginario dei lettori. Ci si immerge in un mondo in cui la magia è reale, governato da valori imprescindibili, dove l'onore e l'impegno preso valgono più di qualsiasi altra cosa, che sia nei confronti di una persona o dell'intero Egitto. La prosa di Jacq e le parole dei suoi personaggi sono caratterizzati da una poesia che sa di un passato glorioso e che grazie ad esse ridiventa attuale. Ci ritroviamo così a vivere nella valle del Nilo, a combattere al fianco del suo faraone per riconquistare questa terra sacra e riportare Maat nel cuore e nella vita dei suoi abitanti. Le pagine scorrono leggere in questo bellissimo sogno e, quando arriviamo all'ultima, non possiamo che chiudere il libro con un ampio sorriso.
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