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 Giant's Causeway, Irlanda del Nord... di Carla
 

"Qui si parla di andare su Marte. Vivere su Marte!" Deserto rosso - Punto di non ritorno

 

Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carla (del 05/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2895 volte)

 Il ritorno del violagiorno
 
Avevo apprezzato parecchio l’originalità de “Il sistema Dayworld” e mi ero divertita a leggerlo. Questo suo seguito e secondo libro della trilogia non mi ha del tutto convinto, almeno non quanto il precedente.
Come sempre Farmer mostra di avere una fantasia galoppante e il suo world building è molto accurato. Pur essendo un seguito, a causa del cambio di ambientazione ha dovuto reinventare da capo i luoghi in cui si svolge la storia, proiettando il lettore in una Los Angeles distopica che va oltre ogni immaginazione.
Jeff Caird, infatti, lascia Manhattan e con una nuova identità, che si aggiunge alle sette precedenti, scappa sulla costa occidentale. Tutti lo cercano, poiché uno dei suoi alter ego custodisce un segreto che può ribaltare l’intero sistema.
La storia che riprende esattamente dal punto in cui è finito il primo libro necessita assolutamente della lettura di quest’ultimo per essere compresa a fondo. Devo dire che le serie in cui è obbligatoria la lettura in ordine dei romanzi sono le mie preferite, quindi si tratta senza dubbio di un aspetto positivo.
Il protagonista sa ancora una volta essere coinvolgente per la sua fallibilità e follia, e la trama è del tutto imprevedibile. Non hai la più pallida idea di cosa attenda i personaggi nella pagina successiva né riesci a immaginare un epilogo possibile all’intera storia.
Purtroppo, però, non posso dare il massimo dei voti a questo romanzo, perché ci sono alcuni aspetti che non mi sono piaciuti.
La trama è infarcita di intrighi negli intrighi, creando una complessità che definirei sterile. Inoltre, il distacco necessario dalla struttura del primo libro costringe l’autore a inventarne una nuova che non risulta altrettanto vincente.
Infine, si sente che si tratta del libro intermedio di una trilogia e quindi soffre il suo essere un racconto di transizione.
A questo punto devo procurarmi l’ultimo per sapere come va a finire!
 
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Di Carla (del 08/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3098 volte)

 Un’eredità maledetta
 
Sebbene si tratti dell’ennesima storia di un complotto nazista ambientato decenni dopo la fine del Nazismo, questo romanzo di Ludlum sa essere originale e intrigante. Il protagonista, Noel Holcroft, mi ha catturato da subito. È facile sentirsi legati a lui e preoccuparsi per lui nel rendersi conto di come si stia infilando nei guai. L’autore, infatti, mostra il dipanarsi della storia da vari punti di vista e il lettore è sempre un passo avanti rispetto ai personaggi, sia buoni che cattivi.
Anche in questo romanzo si ripropone lo schema vincente, già visto nella trilogia di Bourne, di un protagonista maschile fisicamente forte ma in difficoltà e di quello femminile che lo aiuta (e infine si innamorano).
Come unico aspetto negativo ho rilevato la presenza del solito cliché dei nazisti supermalvagi e folli, che compiono le peggiori nefandezze senza il minimo rimorso e che hanno dei seguaci disposti pure a uccidersi per la causa. Nello sviluppo di questo concetto sfugge quale sia la causa che perseguono, a parte la loro follia. Possibile che siano tutti folli? Ci potrà pure essere qualche folle, ma almeno qualcuno dovrebbe avere altre motivazioni, come la sopravvivenza (almeno) o un proprio tornaconto. Il lavaggio del cervello come unico motore delle azioni appiattisce irrimediabilmente i personaggi negativi, sminuendo di riflesso quelli positivi.
Per fortuna il romanzo termina con un finale aperto assolutamente imprevedibile che fa dimenticare tutti i cliché.
Altra nota positiva è la traduzione, sicuramente molto più curata e gradevole di quella dei libri su Bourne.
 
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Di Carla (del 09/08/2016 @ 09:30:00, in Scena del crimine, linkato 7510 volte)

Una delle frasi che si sente più spesso pronunciare nelle serie TV che si occupano di scienza forense è che le prove, a differenza delle persone, non mentono. Una variante di questa affermazione è che i morti (i loro corpi), a differenza dei vivi, non mentono. Il succo del discorso è sempre lo stesso: nelle prove materiali si trova già la risposta per scovare l’artefice del crimine (Mac Taylor di “CSI: NY” pare averne davvero tante a disposizione nella foto accanto), basta individuarle e interpretarle nella maniera giusta.
Nella realtà, però, la maggior parte delle prove fisiche che si trovano sulla scena di un crimine non permettono di identificare in maniera univoca una persona, sono soggette al problema della contaminazione e quindi in ultima analisi possono al massimo fungere da prove a supporto dell’accusa, ma non sono sufficienti da sole a mandare qualcuno in galera.
 
L’identificazione di una persona (che sia colpevole o comunque coinvolta nel delitto) può essere compiuta con successo, in assenza di testimoni (che però possono mentire!), solo se questa coinvolge degli elementi rinvenuti sulla scena che le appartengono in maniera esclusiva, anzi, che sono proprio parte della persona in questione.
Si tratta degli identificatori biometrici. Di questi ultimi esistono due categorie. La prima include caratteristiche fisiologiche, come le impronte digitali, il DNA, il riconoscimento facciale, dell’iride o della retina. La seconda riguarda caratteristiche comportamentali, quali l’andatura, la voce o la grafia.
Questi identificatori sono tipici di una determinata persona, ma alcuni di essi sono addirittura unici e stabili durante tutta la vita, e possono essere lasciati sulla scena di un crimine.
Sto ovviamente parlando di impronte digitali e DNA.
 
Nella realtà trovare questo tipo di prove fisiche utilizzabili per identificare il colpevole è abbastanza difficile. Le impronte digitali, in particolare, sono ovunque in una scena del crimine e spesso sono talmente tante e incomplete da non essere utilizzabili, a meno che non vengano rinvenute sull’arma del delitto. Il DNA è ancora più raro da individuare. Per entrambi è comunque necessario un confronto per stabilirne l’origine (per esempio, prelevando un campione di cellule dalla bocca di un sospettato, come Greg Sanders di “CSI” fa nella foto accanto a un personaggio interpretato da Justin Bieber), ma esistono anche dei database (quello del DNA però si trova in un numero di paesi ancora limitato), per cui da un’impronta o una traccia ematica rinvenuta sulla scena di un crimine si può, almeno in teoria, risalire a una persona, anche se questa non è stata finora collegata al caso.
 
Questo è un raro caso in cui la finzione assomiglia alla realtà.
Anche nella finzione difficilmente il colpevole si lascia dietro impronte digitali e DNA utilizzabili, ma il motivo è che, se così fosse, il caso verrebbe risolto troppo in fretta e non ci sarebbe nessuna storia da raccontare!
Ciò non significa che queste prove non appaiano nelle serie TV, nei film e nei libri. Tutt’altro.
Nelle investigazione della finzione si trovano quasi sempre impronte e DNA, ma di qualcuno che non è il diretto colpevole, cosa che, possibilmente, tende a mandare fuoristrada criminologi e investigatori e a distrarre il lettore/spettatore.
La finzione, però, ancora una volta sottolinea il valore assoluto di questo tipo di prove (be’, lo fa anche con le fibre e le vernici!), senza mai mettere in evidenza alcune problematiche che le riguardano.
 
Per esempio, guardando lo solita puntata di “CSI” si avrà l’impressione che basti inserire un’impronta rinvenuta sulla scena nel computer per avere in tempi brevi un unico riscontro: quello del proprietario dell’impronta.
Non è affatto così. A parte che i tempi non sono affatto brevi secondo le dimensioni del database, c’è anche da considerare che il computer potrebbe dare ben più di un probabile riscontro e nessuno sarà uguale al 100%. A quel punto interviene l’esperto che fa un confronto visuale tra l’impronta a disposizione e quella nel database, per stabilire se effettivamente corrispondono e magari escludere alcuni risultati, se non tutti. È un essere umano che prende questa decisione e, come tale, potrebbe sbagliare.
Eppure sia nella finzione che nella realtà (a questo proposito vi parlerò nel prossimo articolo di questa serie di alcuni errori clamorosi) l’impronta digitale è considerata una prova schiacciante, poiché non esistono due persone al mondo con le stesse impronte precise.
 
Il DNA lo è ancora di più. Anche qui vale il discorso dell’unicità (eccezion fatta per i gemelli monozigoti), solo che non tutti sanno che anche l’analisi del DNA non dà un risultato assoluto. In questo caso il fattore umano non c’entra, perché l’analisi parla da sé, ma i suoi risultati sono di natura statistica, poiché ovviamente non si analizza tutto il corredo genetico a disposizione, ma solo un certo numero di loci. È, altresì, vero che la probabilità che campioni di due persone diverse (non gemelli) restituiscano lo stesso profilo è talmente bassa da poter essere considerata pari a zero.
Quindi sì, il DNA è una prova che non da adito a dubbi, che si tratti di realtà o finzione, solo che in quest’ultima si tende a semplificare la sua individuazione e la sua analisi, che spesso viene svolta in un tempo irrisorio.
Alla fine il criminologo di turno arriva tutto sorridente con un foglio (o un tablet) dal suo capo per mostrargli il risultato, dopo aver compiuto analisi e confronto nel database nel giro di una mezz’ora scarsa. Ma d’altronde bisogna fare in fretta, perché il caso va chiuso entro la giornata e questa prova sarà soltanto una delle tante che avvicinerà alla soluzione, senza però esserla essa stessa.
 
Anche nella trilogia del detective Eric Shaw ho usato impronte digitali e DNA. Addirittura ne “Il mentore” parlo di un caso di manipolazione delle prime, che il protagonista utilizza per far confessare un sospettato. In “Sindrome”, invece, le impronte su un’arma del delitto saranno un elemento importante nell’identificazione del colpevole. Non posso entrare nei dettagli, lasciandoli alla lettura del libro, ma posso dire che a questo proposito mi sono soffermata a spiegare come le impronte sono state raccolte e su come esistano metodi diversi per farlo a seconda del tempo passato dalla loro deposizione.
 
Il primo e più comune nella finzione è quello in cui si spennella una polvere scura sulle superfici per individuare eventuali impronte latenti (come nella foto sopra con Eric Delko di “CSI: Miami”).
Nella realtà (e anche nei miei libri) questa polvere si chiama grigio-argento e viene effettivamente utilizzata a questo scopo per delineare le linee papillari, quelle che sono state impresse su superfici perlopiù lisce a causa della presenza di materiale sebaceo sui polpastrelli (in “Sindrome” mi sono presa l’ennesima piccola licenza, indicando una superficie su cui in genere non è semplice rilevare delle impronte, ma sono rimasta volutamente vaga, lasciando intendere che fosse davvero liscia o supponendo che i criminologi, al solito, fossero stati fortunati). Questo metodo viene usato solo se le impronte sono relativamente recenti, ma, se risalgono a più di due o tre giorni, potrebbero essersi asciugate, quindi è necessario ricorrere a una sostanza chimica chiamata ninidrina, che reagisce con gli amminoacidi presenti nel sudore, generando una colorazione visibile.
 
Anche il DNA fa la sua comparsa nella mia serie (su delle macchie di sangue in “Sindrome”) e anch’esso, nella migliore tradizione della finzione, è usato più che altro per rimescolare le carte e complicare il lavoro ai protagonisti.
Ma, se non altro, posso dire di aver dato un tocco di realisticità al tutto, mostrando come per la sua analisi questi abbiano dovuto aspettare almeno qualche giorno.
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Di Carla (del 10/08/2016 @ 09:30:00, in Autori preferiti, linkato 4538 volte)

Non ricordo esattamente quando mi capitò di leggere il mio primo libro di John Grisham, né quale fosse, ma di certo avvenne già all’inizio degli anni novanta e ben presto questi diventò uno dei miei autori preferiti. A tutt’oggi nel controllare la lunga lista dei suoi romanzi, se escludiamo la serie per ragazzi di Theodore Boone e alcuni dei quali ho visto la trasposizione cinematografica (e quindi per ora ho lasciato da parte), scopro che me ne mancano solo sei, inclusa la raccolta di racconti “Ritorno a Ford County” e due di argomento sportivo, che non mi interessano particolarmente.
 
Grisham è veramente un avvocato che alla fine degli anni ’80 decise di cimentarsi nella scrittura con “Il momento di uccidere”, romanzo da cui venne tratto il famoso film con Samuel L. Jackson, Matthew McConaughey, Sandra Bullock e Kevin Spacey. Il suo secondo romanzo, “Il socio” (anche questo divenuto un film, con Tom Cruise, e più recentemente una serie TV, cui si riferisce la locandina in basso), diventò un bestseller e segnò l’inizio per lui di un drastico cambio di carriera.
 
Ai suoi libri viene affibbiata l’etichetta di legal thriller, ma in realtà ciò che veramente li accomuna è il fatto che al loro interno c’è quasi sempre l’elemento legale (frutto del suo background) che viene usato solo come pretesto per poi raccontare le storie delle persone. Alcuni suoi romanzi hanno effettivamente il ritmo, la suspense e il finale che ci si attende dai thriller, soprattutto la prima parte della sua produzione, ma nell’andare avanti nella propria carriera Grisham ha sempre più spesso proposto delle storie incentrate su una morale e con un finale realistico e, quindi, non sempre del tutto positivo per i protagonisti. Rientrano in quest’ultima categoria romanzi come “Il testamento” o “Ultima sentenza”.
 
Grisham ha anche provato ad allontanarsi del tutto dall’argomento legale con “Fuga dal Natale”, “L’allenatore” e “Il professionista”. Il primo potrebbe essere definito un romanzo umoristico, anche se ammetto di aver odiato il finale, che non ho trovato per niente divertente. Il secondo è fortemente incentrato sul football americano, sport che conosco appena, e ciò non mi ha permesso di apprezzarlo più di tanto. Il terzo ho deciso proprio di non leggerlo (o, se l’ho letto, devo averlo rimosso!), proprio perché tratta dello stesso argomento.
 
La casa dipinta”, pubblicato nel 2001, appartiene anch’esso alla narrativa non di genere, benché vi faccia una piccola apparizione anche l’argomento legale. Si tratta di un romanzo molto particolare, poiché la storia viene narrata da un bambino di sette anni. L’autore lo scrisse ben prima di diventare famoso e, proprio grazie alla fama raggiunta, poté in seguito ottenerne la pubblicazione.
Ricordo di aver letto questo libro nel periodo in cui uscì e di averlo particolarmente amato. Mi ha aperto gli occhi sulla bravura di Grisham nel ruolo di narratore che va oltre le etichette poste ai suoi romanzi.
 
Il mio preferito della sua produzione è, senza ombra di dubbio, “La giuria”, che è a tutti gli effetti un legal thriller. La storia è incentrata su una causa intentata contro un produttore di sigarette per conto della moglie di un uomo, un fumatore, morto di cancro ai polmoni. All’argomento di grande interesse si aggiunge il tema legale sviluppato dalla trama: le dinamiche di una giuria in una causa di questo tipo, a partire dalla sua formazione fino a tutti gli intrighi per pilotarne il verdetto.
Da questo romanzo è stato poi tratto un film con John Cusack, Rachel Weisz, Dustin Hoffman e Gene Hackman.
Se non avete mai letto un libro di Grisham, questo è sicuramente quello che vi consiglio.
La mia ultima lettura, invece, è “L’ombra del sicomoro”, in cui il tema legale è accompagnato da quello del razzismo, già visto ne “Il momento di uccidere”, di cui rappresenta una sorta di sequel.
 
Tra le mie recensioni che potete trovare in questo blog vi segnalo anche: “I contendenti”, “Io confesso”, “Il ricatto”, “L’ultimo giurato”, “Il re dei torti” e “Innocente. Una storia vera”.
 
Infine, vi riferisco una piccola curiosità. Io e Grisham, pur essendo così lontani come autori, sia a livello di tematiche che, soprattutto, di copie vendute (!), ci siamo però trovati per caso a rivaleggiare per la seconda posizione nella classifica generale del Kindle Store americano verso la fine dello scorso ottobre (2015), io con il mio “The Mentor” e lui col suo “Rogue Laywer” (che poi in Italia è uscito col titolo di “Avvocato canaglia”). Certo, poi tra i due libri c’era anche un’altra trascurabile differenza: il suo costava oltre sette volte il mio (che in quel momento era in promozione scontata)!
In ogni caso, trovarsi lassù con lui, che è uno degli autori da cui da sempre traggo ispirazione, è stata una grande emozione che non credevo che avrei mai avuto la fortuna di provare.
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Di Carla (del 11/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3063 volte)

 Un altro inganno del maestro
 
Spesso Crichton si è divertito a scrivere i propri libri in modo che sembrassero delle storie vere di cui stesse facendo un puro resoconto. L’attenzione che pone nelle finte introduzioni o prefazioni è tale che alla prima lettura non ci si accorge che esse stesse sono l’inizio del romanzo.
È quello che accade anche in “Mangiatori di morte”, in cui l’autore finge di tradurre il manoscritto del protagonista, Ibn Fadlan. Il suo intento è perfettamente riuscito. Il testo sembra davvero scritto dal personaggio storico, che in realtà non è mai esistito, sia per lo stile sia per le parti mancanti, che vengono spiegate come se davvero il libro fosse frutto di un lavoro di ricostruzione. Si tratta in realtà di un’opera di finzione in parte ispirata alla storia di Beowulf.
Nonostante lo stile reso volutamente datato, la trama è avvincente e apre uno squarcio di conoscenza sulla civiltà dei normanni, vista da quella allora più civilizzata di un arabo proveniente da Baghdad. Dopo il tempo necessario a adattarsi è questo tipo di narrazione, a un certo punto riuscivo addirittura a vedere le scene formarsi davanti agli occhi, tale era l’interesse che suscitavano in me.
All’interno della storia l’autore riesce anche a inserire qualcosa di scientifico che la rende ancora più affascinante: l’incontro con un ominide (forse) ancora esistente a quei tempi.
Il finale troncato è una genialata e aggiunge ulteriore credibilità all’inganno di Crichton, che con questo romanzo mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, di essere un grande narratore.
L’unico aspetto negativo di questo libro è che, avendolo letto, si è ridotto ulteriormente il numero delle opere che mi sono rimaste da leggere di questo autore che ci ha lasciato troppo presto.
 
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Di Carla (del 12/08/2016 @ 09:30:00, in Luoghi dei romanzi, linkato 4848 volte)

Ai confini del Borough di Islington si trova il quartiere di Holloway, che è uno dei più densamente abitati di Londra e che ospita una popolazione multiculturale. È attraversato dalla Holloway Road, che fa parte della A1, la più lunga strada numerata della Gran Bretagna (di fatto fuori della città diventa un’autostrada).
 
Il quartiere, che è perlopiù residenziale, non presenta particolari attrazioni turistiche, a eccezione del nuovo stadio della squadra di calcio dell’Arsenal, l’Emirates Stadium (nella foto accanto, in cui trovate anche me, e nel dettaglio delle foto sotto, entrambe scattate nel marzo 2011), che con i suoi 60.000 posti è il terzo più grande di Londra, dopo quello di Wembley (ci sono poi l’anno dopo in occasione delle Olimpiadi) e quello di Twickenham (in cui però si gioca il rugby).
L’Emirate Stadium si trova esattamente a Ashburton Grove, nome con cui veniva chiamato prima di prendere quello dello sponsor (Emirate Airlines), nella stessa zona in cui si svolge una scena de “Il mentore” all’interno del blog di Mina.
Durante la scena la nostra serial killer preferita ha seguito Christopher Garnish sino all’abitazione in cui si nasconde, dove rischia di essere vista dall’agente Mills (che in “Sindrome” scopriamo essere stato promosso al grado di sergente), anche lui sulle tracce del sospettato degli omicidi. I personaggi arrivano in zona, però, dalla stazione della metropolitana di Arsenal, che si trova nel quartiere adiacente di Highbury.
La casa in cui si trova Garnish esiste veramente. Leggendo la sua descrizione del libro, dopo aver seguito la strada percorsa dalla stazione, e dando un’occhiata a Ashburton Grove con la street view su Google Maps, forse potreste riuscire a individuarla.
 
 
Holloway ritorna anche in “Sindrome”, questa volta per mostrare una scena in cui il detective George Jankowski incontra un informatore della polizia. Il detective a capo della squadra della sezione scientifica che interviene sui crimini che hanno luogo a Islington (un collega di Eric col suo stesso grado, detective ispettore capo) si trova nei pressi della stazione della metropolitana di Holloway Road e segue in macchina l’informatore in una traversa.
 
Nella scena vengono nominati altri due luoghi interessanti. Il primo è il Campus Nord della London Metropolitan University (nella terza foto, di Alan Stanton, è visibile l’Orion Building che ne fa parte). L’ateneo è chiamato anche semplicemente London Met e comprende anche un secondo campus nella City.
Il secondo sono gli Studios di Islington (da non confondere con gli Islington Studios, che erano degli vecchi studi cinematografici situati in un altro quartiere). Il nome preciso in inglese è The Studios Islington e si tratta di un complesso che include uffici, locali commerciali, ristoranti e spazi creativi.
 
In “Sindrome” si racconta anche qualcosa in più sulla storia del quartiere di Holloway. A questo proposito, cito solo il fatto che è stato teatro di un famoso caso reale di cronaca nera all’inizio del secolo scorso: il cruento omicidio di Cora Crippen a opera del marito, anche se adesso si mette in dubbio che fosse stato lui l’assassino (poi condannato a morte e giustiziato). Purtroppo non si saprà mai la verità.
L’ho riportato nel romanzo anche perché ho avuto il piacere di leggere un libro che ne parla in parallelo con la biografia di Guglielmo Marconi. Mi riferisco a “Guglielmo Marconi e l’omicidio di Cora Crippen” di Erik Larson, un saggio romanzato che racconta come grazie al radiotelegrafo inventato da Marconi la polizia sia riuscita a catturare Hawley Harvey Crippen, che stava fuggendo in America con l’amante. Il comandante del transatlantico in cui viaggiava avvertì Scotland Yard e Crippen si ritrovò la polizia ad attenderlo al suo arrivo in Canada, a un passo dal riuscire a sparire per sempre.
 
Holloway è stato anche il quartiere di residenza di Douglas Adams, l’autore di “Guida galattica per gli autostoppisti”, e tuttora ospita numerosi artisti, giornalisti, autori e altre persone che lavorano in campo televisivo e cinematografico, tra cui l’attrice Kaya Scodelario, già interprete della serie di Maze Runner e che troveremo nel quinto film dei Pirati dei Carabi (con Johnny Depp).
La prigione di HMP Holloway, che ora è diventata un carcere femminile, è anche tristemente famosa perché al suo interno è stato detenuto Oscar Wilde.
 
Nella finzione di “SindromeHolloway ospita anche la famiglia Murphy, proprietaria di una catena di pub e di una rete di traffici di droga. Non me ne vogliano gli irlandesi se ho scelto dei cognomi e dei nomi che richiamano alla mente l’Irlanda, anche se ciò non viene mai specificato nel libro. Come ho detto, si tratta assolutamente di finzione. In realtà non so se a Holloway ci siano molti irlandesi (o discendenti), ma mi sono assicurata che non esistesse nessun pub col nome di Murphy’s Den.
 
È inoltre un caso che in entrambi i libri il cattivo di turno abbia a che fare proprio con Holloway. Giuro che ci ho fatto caso solo dopo aver finito di scrivere la prima stesura del secondo!
 
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Di Carla (del 15/08/2016 @ 09:30:00, in Varie, linkato 2270 volte)
Come avrete notato, ho ripreso a pubblicare un articolo al giorno in questo blog (dal lunedì al venerdì), ma almeno per questa settimana mi prendo una pausa durante la quale sarò per qualche giorno completamente offline.
Nel frattempo vi lascio con una lista degli articoli più letti a partire da luglio, così, nel caso ne abbiate perso qualcuno, potete cogliere l’occasione di recuperarli e, magari, lasciare un commento.
 
 
L’articolo più letto in assoluto è stato Perché sono entusiasta di Star Trek Beyond, ma anche dei precedenti. Al suo interno esprimo le mie opinioni su questa nuova saga cinematografica del franchise di Star Trek cui mi sto inaspettatamente appassionando. Ho cercato di capire perché a una come me, che non è mai stata una trekker (o trekkie), stanno piacendo così tanto i nuovi film e credo di aver trovato una risposta.
Vi invito a leggerlo e a condividere le vostre opinioni nei commenti.
 
Sul blog ho inoltre recentemente presentato tre nuove serie di articoli.
La prima è Scena del crimine, che in realtà include anche un articolo di ben due anni fa. Al suo interno racconto alcune differenze che esistono tra il lavoro del criminologo mostrato nella finzione (serie TV, film e romanzi) e ciò che avviene nella realtà.
Finora sono stati pubblicati cinque articoli:
 
La seconda è Luoghi dei romanzi, che in questi mesi sarà incentrata su La Londra del detective Shaw, vale a dire le location in cui si svolgono i primi due libri della trilogia del detective Eric Shaw: “Il mentore” e “Sindrome”.
Ecco i tre articoli pubblicati finora:
 
 
La terza, invece, è dedicata ai miei Autori preferiti, in cui vi parlo degli scrittori che amo di più e del perché mi piacciono così tanto. All’interno degli articoli riporto anche dei link ad alcune recensioni dei loro libri e dei consigli di lettura.
Ecco i primi due articoli:
 
Vi segnalo, inoltre, l’articolo The Good Wife: legge, politica e tradimenti, dedicato a una delle serie TV più interessanti degli ultimi anni, che mescola con astuzia e ironia l’argomento giudiziario con un’immagine molto attuale della politica e soprattutto delle campagne elettorali negli Stati Uniti, aggiungendo al tutto l’elemento sentimentale.
 
In chiusura vi ricordo che A novembre tornerete su Marte con “Ophir”. Questo articolo parla del mio prossimo romanzo di fantascienza, che è il sequel cronologico della serie di “Deserto rosso.
 
Auguro buone vacanze a tutti e ci rileggiamo su questo blog la settimana prossima!
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Di Carla (del 22/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2576 volte)

 Strano, ma divertente
 
La fantascienza classica è un universo variegato che riserva interessanti scoperte. Una di questa è senza dubbio “Memorie di una astronauta” (o “Memorie di un’astronauta donna”, secondo l’edizione) di Naomi Mitchison, uno strano e folle libro in cui una donna astronauta racconta le vicende di cui è protagonista in maniera discorsiva.
L’autrice mostra una fantasia esagerata nell’inventarsi i mondi e gli alieni più bizzarri e nell’intessere trame imprevedibili all’interno dei singoli episodi narrati. Il personaggio principale è Mary, un’esperta di comunicazioni che ha l’occasione di mettere in pratica le proprie conoscenze nei modi più disparati. Lo stile è colloquiale, dando l’impressione che Mary ti stia raccontando la sua vita, mentre vi fate quattro chiacchiere.
In linea generale il libro mi è piaciuto, altrimenti non gli avrei dato quattro stelle, ma ci sono alcuni aspetti che mi hanno impedito che aggiungessi la quinta.
Purtroppo si vede parecchio il passaggio del tempo (il romanzo è del 1962), soprattutto nel modo assurdo in cui viene immaginata vita sessuale del futuro. A quanto pare, viene ritenuto “moderno” o “futuristico” che le persone abbiano rapporti sessuali con l’unico scopro di procreare, ma non necessariamente per creare una relazione stabile (i figli li cresce qualcun altro), e che la parte di intrattenimento relativa al sesso sia passata di moda, poiché tutti sono impegnati a esplorare mondi e fare ricerca scientifica. Il sesso per le donne diventa un passatempo che serve a fare figli in grande numero (non si capisce come ciò possa essere accettabile, vista la sovrappopolazione) da vari padri. E basta. Al massimo dopo una certa età, quando vanno in pensione, decidono di prendere uno di questi padri come compagno definitivo.
Che cosa triste!
A questo aspetto che mi ha reso estremamente difficile la sospensione dell’incredulità, si aggiunge lo stile colloquiale, che non favorisce l’immedesimazione nella testa della protagonista.
È comunque una lettura interessante e gradevole, in particolare per chi ama immergersi nella fantascienza un po’ ingenua e “vintage”, e rendersi conto quanto questo genere letterario possa essere vario e come si sia evoluto in tutti questi anni.
 
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Due nemici potranno mai fidarsi completamente l’uno dell’altro?
 
 
In un lontano futuro, il pianeta Thalas è teatro di una lunga guerra tra la colonia degli umani, arrivati dalla Terra per esplorarlo e forti dei propri mezzi e del proprio sviluppo tecnologico e sociale, e la specie autoctona delle sirene. Queste creature umanoidi, dall’intelligenza sopraffina e perfettamente adattate a un pianeta la cui quasi totale superficie è ricoperta da un unico immenso oceano, non hanno mai cercato di comunicare con i colonizzatori e, nonostante siano ormai ridotte in numero, continuano a combatterli tramite atti terroristici in maniera cieca e rifiutando ogni possibilità di pace.
Questo è il contesto che, in “Per caso”, fa da sfondo alla storia di una (im)possibile amicizia tra un umano e un alieno, due nemici che una sequenza di eventi casuali ha portato a confrontarsi.
Doc è un ufficiale del Corpo della Difesa della colonia umana di Thalas. Il suo lavoro è uccidere le sirene. Di ritorno alla stazione spaziale Poseidon, dopo una ricognizione nel dominio sirenico insieme alla sua partner, s’imbatte nel relitto di una nave stellare, adibita al trasporto di trecento passeggeri in animazione sospesa e di cui si erano perse le tracce diversi decenni prima. La Chance, così si chiama l’astronave, è ormai un cimitero, poiché da tempo non ha abbastanza energia per sostenere la criostasi del suo carico, ma, durante l’investigazione per scoprire cosa abbia provocato la sua scomparsa, Doc si ritrova a conoscere da vicino l’incomprensibile mentalità delle sirene, inaccettabile per il modo di ragionare degli esseri umani, ma che getta luce sulle azioni degli individui di questa specie, pronti a immolarsi pur di uccidere uno solo di coloro che definiscono invasori. Ma forse, al di là della guerra, al di là del terrore, può ancora esistere l’amicizia.
 
 
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Di Carla (del 24/08/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 4729 volte)

Nel panorama delle serie investigative, “Bones” ha l’originalità di presentare per la prima volta in TV la figura dell’antropologo forense, vale a dire la dottoressa Temperance Brennan, interpretata da Emily Deschanel.
Sebbene la serie presenti una coppia di protagonisti, con l’agente speciale dell’FBI Seely Booth che sarebbe almeno ufficialmente a capo delle indagini nei singoli casi, di fatto è la Brennan, che lui chiama appunto Bones (ossa) e che considera la sua partner (nonostante lei non appartenga alle forze dell’ordine), a essere coinvolta in prima persona nella loro risoluzione.
 
Ho scoperto questa serie quando è arrivata su Sky nel 2008, per curiosità seguendo David Boreanaz dalla sua precedente, “Angel” (il vampiro con l’anima di “Buffy l’ammazzavampiri”, che invece non ho mai guardato, di cui rappresenta uno spin-off) e mi ha subito appassionato.
Adoravo il personaggio di Brennan, estremamente intelligente, pragmatica, razionale, che diceva ciò che pensava senza filtri, in pratica la ex-secchiona di successo, ma senza cadere in facili cliché da nerd. La Brennan era brillante sia per il suo talento sia per il fatto che era stato affinato dall’intenso studio e dalla passione quasi ossessiva per quest’ultimo. Devo dire che nel mio piccolo, essendo io stessa tendente al perfezionismo, un po’ mi ci immedesimavo. Queste sue caratteristiche la rendevano imprevedibile, non sapevi cosa avrebbe detto o fatto in ogni puntata, e quasi magica. Le bastava, infatti, un’occhiata alle ossa delle vittime per stabilire sesso, razza, talvolta età e persino la tipologia del lavoro che faceva.
Quello tra lei e l’agente Booth, intuitivo, sentimentale e credente, era quindi un conflitto sempre stimolante che manteneva alto l’interesse, indipendentemente dai singoli casi.
 
Con l’andare avanti delle stagioni qualcosa è necessariamente cambiato. I due personaggi hanno finito per interagire fino allo scontato epilogo romantico e le differenze fra i due sono state smussate. Come ho detto, era necessario, perché in tante stagioni non si poteva pretendere in mantenere lo stesso schema, che avrebbe finito per diventare ripetitivo e noioso, una volta esaurita la sorpresa iniziale, ma forse è anche uno dei motivi perché storie di questo tipo funzionano meglio in un contesto più breve, come i film e le miniserie.
 
 
Di fronte a questo cambiamento gli sceneggiatori hanno fatto del loro meglio per far accrescere l’interesse negli altri personaggi, le cui sotto trame sono molto ben curate, mentre i vari crimini sono sempre rimasti un po’ in secondo piano.
Fanno eccezione alcune storie che sono state spalmate su più puntate, come quella del serial killer cannibale Gorgomon della terza stagione o del cattivissimo hacker Christopher Pelant, che compare addirittura in tre di esse (la settima, l’ottava e la nona), e ovviamente il fatto che ogni stagione tenda a terminare con un cliffhanger, facendo sì che la vicenda venga ripresa all’inizio di quella successiva.
Le restanti puntate sono autoconclusive e, se non fosse per piccoli elementi delle sottotrame, perderne qualcuna non ha quasi mai effetto sulla comprensione generale della serie.
 
La somma dei pregi e dei difetti di “Bones” ha fatto sì che venisse rinnovata di anno in anno e recentemente la Fox ha annunciato la preparazione di una dodicesima stagione, che sarà anche quella conclusiva. Senza dubbio si tratta quindi di una serie di successo giunta al suo termine fisiologico.
 
Come molti sanno, il personaggio di Temperance Brennan deve il suo nome alla protagonista della serie di romanzi di Kathy Reichs.
In realtà il legame è abbastanza debole, poiché i due personaggi hanno come elementi comuni, a parte il nome, solo il mestiere di antropologa forense. Nessuna delle puntate è tratta da un romanzo specifico. Anzi, pare che l’idea di base fosse nata dal progetto di un documentario sulla stessa Reichs, che è appunto un’antropologa forense, e quindi la Brennan di “Bones” sarebbe più che altro una trasposizione sul piccolo schermo della stessa autrice. Infatti, a un certo punto della serie la Brennan inizia a scrivere dei romanzi la cui protagonista si chiama Kathy Reichs, mescolando ancora di più realtà e finzione. La Reichs, inoltre, afferma che la serie potrebbe essere più che altro vista come un prequel dei suoi romanzi, visto che la sua Brennan è meno giovane del personaggio interpretato dalla Deschanel.
Comunque lo si guardi, siamo di fronte a un intreccio tra narrativa, TV e vita reale, che rende, se possibile, la serie di “Bones” ancora più originale.
 
La scienza forense è, invece, illustrata in maniera così rapida che, a mio parere, non offre spunti particolarmente interessanti. La presenza di prove fisiche è funzionale alla scoperta dell’assassino e quest’ultima è facilitata da tecnologie alternative, per non dire fantascientifiche, che hanno lo scopo di intrattenere, spesso attraverso l’elemento comico, più che far apprendere allo spettatore l’aspetto scientifico.
 
A ciò si aggiungono alcune guest star di tutto riguardo, come Ryan O’Neal nel ruolo del padre dal passato criminale della Brennan o la popstar Cyndi Lauper, che interpreta una sensitiva, entrambi personaggi ricorrenti, e una buona dose di dark humour, che aleggia in tutte le stagioni, alleggerendo le tematiche forti.
In ogni puntata c’è, infatti, almeno un cadavere scarnificato e/o smembrato, ma viene sempre rappresentato in maniera non eccessivamente raccapricciante, evitando di mettere l’accento sull’evidente brutalità dei crimini, anche se la visione ai bambini è tutt’altro che consigliata.
Il tutto è condito, a mio parere, da un eccessivo buonismo (da TV generalista) e una distinzione netta tra ciò che è assolutamente giusto e ciò che è assolutamente sbagliato, non lasciando alcun spazio all’esistenza delle situazioni intermedie, che sono invece la normalità nel mondo reale.
 
È comunque una serie divertente che si lascia guardare senza costringerti a troppe riflessioni e che, volente o nolente, ti porta a seguirla fino alla fine.
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