Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carla (del 25/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2646 volte)
Una realtà dura, struggente, imperdonabile
Questo romanzo mi ha catturato dalla prima pagina, grazie alla bella prosa, fantasiosa, evocativa e particolarmente ispirata dell’autrice, caratterizzata da un vocabolario ampio e un uso originale delle parole.
È facile immedesimarsi nei personaggi, anche quando nulla hanno in comune con chi legge, e nelle loro miserie, interiori ed esteriori. È impossibile non rimanerne colpiti e a volte a nauseati nel comprenderne le implicazioni.
Il colpo di scena finale non è del tutto inatteso, aleggiava lungo il libro, ma ti raggiunge quando ormai non ci pensi più, distratto da altro.
Il motivo per cui non riesco a dare più di quattro stelle a questo romanzo è che non ho apprezzato la scelta di mostrare gli eventi della storia prima dal punto di vista di un personaggio e poi da quello dell’altro (mi riferisco ai due protagonisti: Alice e Nico). Le porzioni delle scene completamente sovrapposte erano troppe. Ogni volta si tornava indietro, mentre io volevo sapere cosa sarebbe successo dopo. L’utilizzo di questa tecnica allunga il testo, ma non porta avanti l’azione. Mi ha indotto più volte a interrompere la lettura e sono stata tentata di abbandonare del tutto il libro.
Ho inoltre trovato molto difficile seguire i dialoghi in dialetto, che in alcuni casi erano per me totalmente incomprensibili.
Le impronte digitali sono uniche e per questo motivo sono considerate il metodo più efficace per stabilire l’identità di una persona insieme all’analisi del DNA, che però è molto più difficile da reperire sulla scena del crimine. Ma, a differenza del DNA che viene confrontato tramite a un procedimento strumentale il quale dà una risposta su cui, salvo manipolazioni del campione, non ci sono dubbi (per quanto fornisca solo un dato statistico), l’esame delle impronte digitali viene invece compiuto visivamente da una persona. Il computer può selezionare alcuni possibili profili che presentino delle somiglianze con l’impronta rilevata sulla scena, ma poi è il criminologo che deve fare un confronto visuale e prendere una decisione.
Si sa che il fattore umano comporta sempre un margine di errore, eppure ci si è resi conto quanto questo possa essere vero anche nell’ambito del confronto delle impronte digitali solo quando si sono verificati dei casi clamorosi di errori giudiziari.
Uno dei più famosi riguarda l’attacco terroristico di Madrid del 2004. Sulla scena era stato trovato un sacco di plastica contenente dei detonatori. Su di esso era stata rilevata un’impronta digitale latente, che era poi stata digitalizzata e trasmessa all’Interpol. Il confronto automatizzato con il database di quest’ultima aveva fornito venti risultati. Tra questi ne era stato individuato uno che, secondo un esperto di impronte digitali dell’FBI, presentava una corrispondenza molto elevata, tanto da portarlo a dire di aver trovato il proprietario dell’impronta rinvenuta sulla scena. La sua conclusione venne poi confermata da altri due esperti sempre all’FBI.
L’impronta era di un canadese, di nome Brandon Mayfield, un avvocato di fede musulmana, sposato con una donna egiziana. L’uomo negò di avere a che fare con l’attentato, ma venne comunque arrestato in base al rinvenimento di una sua impronta digitale.
Successivamente un altro esperto indipendente confermò per la quarta volta la conclusione di quelli dell’FBI, ma poco tempo dopo la polizia spagnola dichiarò di aver trovato il vero colpevole, il proprietario di quell’impronta (un algerino, che è stato poi incriminato per l’attentato). In virtù di ciò Mayfield, che non aveva davvero niente a che fare col caso, venne rilasciato.
La domanda che ci si pone è: come è possibile che ben quattro esperti fossero convinti che l’impronta ritrovata era la sua? Alla luce di questo, quanto è davvero affidabile l’uso delle impronte digitali per stabilire la colpevolezza di qualcuno?
E questo caso non è neppure l’unico, sebbene sia il più eclatante.
Un altro, per esempio, è avvenuto nel Regno Unito, dove sulla scena di un omicidio (la vittima si chiamava Marion Ross) fu rinvenuta un’impronta poi attribuita a una detective (Shirley McKie) che lavorava effettivamente al caso. Si potrebbe pensare al classico esempio di contaminazione involontaria della scena da parte della polizia, ma la detective non era mai entrata nel bagno dove era stata trovata l’impronta e, siccome continuava ad affermarlo, venne accusata di spergiuro e perse il lavoro.
Successivamente si resero conto che l’impronta non era sua. C’era stato, appunto, un errore umano da parte del criminologo che aveva eseguito il confronto. La detective riottenne il lavoro, ma allo stesso tempo siccome era stato trovato il colpevole dell’omicidio (un certo David Asbury) sempre grazie a un’impronta digitale, la corte non accettò quest’ultima come prova e lui venne rilasciato.
Anche in questo caso era stato fatto un errore, con l’aggravante che aveva avuto un’ulteriore conseguenza negativa, quella di far rilasciare il vero colpevole.
Quanti altri errori del genere vengono compiuti senza che se ne sappia nulla? Quante persone sono state scagionato o, peggio, incriminate e magari incarcerate a causa di questi errori?
Non si sa, ma di certo tutto questo mette in evidenza come l’uso delle impronte digitali, o di altre prove fisiche la cui identificazione dipende in gran parte o esclusivamente da una decisione presa da un essere umano,potrebbe non dare affatto certezze.
Di certo si può ridurre il margine di errore con opportuni accorgimenti.
Nel caso di Mayfield l’errore era probabilmente dovuto al fatto che tutti gli esperti coinvolti sapessero che l’uomo era musulmano (cosa che può creare un pregiudizio) e nel caso della McKie il fatto che lei lavorasse al caso (altro pregiudizio), ma soprattutto i successivi al primo erano consapevoli della conclusione cui erano giunti i loro colleghi (i confronti, invece, avrebbero dovuto essere ciechi).
Tutto ciò riguarda la realtà, che ancora una volta si presenta molto più avara di certezze di quanto non sia la finzione.
Onestamente non ricordo un solo film, romanzo o serie TV in cui il criminologo di turno abbia sbagliato dell’identificare il proprietario dell’impronta. Nella finzione queste figure professionali sono mostrate infallibili e, se mai esiste errore, è dovuto a una manipolazione della scena da parte del colpevole oppure è volontario.
In quest’ultima casistica rientrano le vicende di Dexter Morgan, protagonista della serie TV “ Dexter” (e dei libri di Jeff Lindsay da cui è tratta), l’ ematologo forense che spesso altera le proprie conclusioni di esperto o manipola le prove durante le indagini per coprire il proprio operato come serial killer o per assicurarsi che una certa persona non venga arrestata in modo che lui stesso possa ucciderla.
Insomma, nella finzione si tende ad esaltare l’astuzia dei protagonisti e i difetti, quando ci sono, non riguardano mai la sfera lavorativa. Tipicamente l’investigatore beve (o addirittura si droga), mangia poco, dorme poco o niente e magari neppure si lava, ma quando si tratta di indagare su un omicidio è sempre lucidissimo!
Un esempio di questo cliché è la serie di libri di Michael Connelly che ha come protagonista il detective Harry Bosch, da cui negli ultimi anni è stata tratta la serie TV “ Bosch” prodotta dagli Amazon Studios.
Nel secondo libro, “Ghiaccio nero”, c’è poi un caso di errore nell’identificazione del proprietario delle impronte digitali, ma si tratta di un qualcosa di voluto e orchestrato per sviare le indagini e non di un semplice sbaglio fatto da chi ha compiuto il confronto.
L’errore umano senza un secondo fine non funziona un granché nella finzione, forse perché è troppo realistico.
Io stessa ammetto che nello scrivere la trilogia del detective Eric Shaw non ho inserito e non intendo inserire errori del genere da parte dei protagonisti. Qualche volta possono lasciarsi sfuggire un dettaglio (perché la cosa torna utile alla trama), ma mai sbagliare il confronto di un’impronta. Gli errori al massimo li fa l’antagonista di turno.
Ciò non significa che non sfrutti il fattore umano. Il detective Shaw infatti sfrutta questo tipo di vulnerabilità delle scienze forensi per addomesticare le prove, come nel caso di Johnson ne “ Il mentore”, in cui fa in modo che vengano trovate le sue impronte sull’arma del delitto per indurlo a confessare.
Ma cosa succederebbe se nel seguire il proprio istinto puntasse alla persona sbagliata? Mettiamo che sia straconvinto di aver trovato il colpevole e forzi la situazione, manipolando una prova in modo che quest’ultimo non possa sfuggire alla giustizia.
E se successivamente, magari anni dopo, saltasse fuori qualcosa che mette in dubbio la validità di quella convinzione?
È proprio questo possibile dubbio che esplorerò nel libro finale della serie, “Oltre il limite”.
Di Carla (del 29/08/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3459 volte)
Mai lasciarsi ipnotizzare!
Questo breve thriller paranormale è un’altra piccola perla dell’estesa produzione letteraria di Matheson. Pur essendo un’opera abbastanza breve, riesce a essere un libro completo, grazie alla capacità dell’autore di usare un ritmo veloce, che non si perde in troppe chiacchiere, ma riesce a sintetizzare in uno spazio ristretto una trama complessa.
Come sempre nei suoi libri non hai idea di cosa possa succedere dopo, poiché è difficile etichettarli e quindi risalire dal genere al tipo di trama. Il suo muoversi con disinvoltura tra il fantascientifico e la fantasia pura fa sì che il lettore non sappia cosa attendersi quando prende in mano un suo libro.
Nonostante il romanzo sia datato, la prosa suona contemporanea (anche grazie anche alla traduzione).
Il personaggio principale, Tom, che dopo essersi lasciato ipnotizzare inizia a vedere e sentire cose strane, è caratterizzato da grande ironia e un pizzico di follia, che lo rendono affascinante. Forse i protagonisti di molti dei suoi libri tendono ad assomigliarsi, ma ciò non li rende meno interessanti.
L’unico aspetto negativo che riesco a individuare è la scelta del titolo italiano, che vuole evidentemente ricordare una sua opera più famosa, “Io sono leggenda”. È una scelta di marketing davvero pessima, poiché i due libri appartengono a generi abbastanza diversi e potrebbero attirare lettori con gusti differenti.
Di Carla (del 30/08/2016 @ 09:30:00, in Cinema, linkato 3411 volte)
Ci sono tanti bei film che non arrivano nei nostri cinema e di cui difficilmente sentiremo parlare. “ Another Earth” (2011) ne è un esempio. Anche se il film è stato poi doppiato e forse distribuito in qualche sala in Italia (ma non ne sono del tutto certa), di fatto ha potuto raggiungerci veramente grazie all’home video e soprattutto alle pay TV. Ma, se il 24 luglio del 2011 non avessi letto un brevissimo post di Gary Lightbody (cantante degli Snow Patrol) che affermava di volerlo vedere e allegava un link al trailer, difficilmente mi sarebbe venuto in mente di cercarlo, tra le tante scelte possibili di Sky o di altre fonti.
E invece è bastato un brevissimo post a incuriosirmi, ma poi il film è rimasto lì per anni prima che mi decidessi a guardarlo, qualche giorno fa.
Si tratta di un film indipendente, quindi non attendetevi effetti speciali mirabolanti o un grande cast (grande nel senso di numero di attori), ma allo stesso tempo potete stare certi che ne rimarrete stupiti, poiché, essendo svincolati dalle logiche dei blockbuster che devono essere dei successi a tutti i costi per coprire le enormi spese per realizzarli, i film indipendenti (un po’ come le opere dei musicisti indipendenti o degli autori indipendenti) hanno il privilegio di poter osare.
A dirigere il film è Mark Cahill, un regista semisconosciuto che ha all’attivo tre film (di cui questo è il secondo), tutti indipendenti.
I ruolo della protagonista femminile è affidato a Brit Marling, anche lei al tempo inserita nello stesso circuito cinematografico, ma che successivamente ha recitato in film come “ La Frode” (in cui interpretava la figlia di Richard Gere e Susan Sarandon) e “ La regola del silenzio” (di Robert Redford).
Quello del protagonista maschile è di William Mapother, che gli amanti delle serie TV ricorderanno nel ruolo di Ethan Rom in “ Lost”, ma che bazzica il grande cinema, sebbene in ruoli minori, già dal 1989.
La trama a prima vista parrebbe quella di un film di fantascienza o più genericamente di un film che rientra nel genere fantastico, facendo un po’ pensare a “ Ai Confini della Realtà”.
Viene scoperto un pianeta abitabile, identico alla Terra, che si sta avvicinando a essa. Lo chiamano Terra 2, per semplicità. Il suo essere identico alla Terra non riguarda, però, soltanto la sua conformazione. Questo fatto già da di per sé dovrebbe spaventare tutti gli abitanti del nostro pianeta e fare credere loro di essere vittime di un’allucinazione collettiva, invece in una sorta di atmosfera surreale le persone ne sono appena incuriosite. Ma a rendere ancora più incredibile tale scoperta c’è il fatto che, dopo quattro anni, quando i due pianeti sono a distanza di comunicazione, ci si rende conto che Terra 2, almeno all’apparenza, ha gli stessi abitanti della Terra.
Staranno vivendo davvero la stessa vita identica?
In questo contesto si inserisce la storia di Rhoda Williams, che nella notte del primo avvistamento di Terra 2, un po’ alticcia dopo una festa, è alla guida di un’auto mentre cerca di ammirare quel nuovo puntino blu nel cielo notturno e, così facendo, provoca un incidente in cui muoiono due persone e una finisce in coma.
Non vi dico cosa succede dopo, perché il bello di questo film è seguire l’imprevedibile volgere degli eventi. Anzi, vi ho già rivelato troppo accennandovi all’inizio.
Vi basti sapere che è una storia drammatica, di redenzione, che sfrutta un contesto fantasioso per affrontare il tema delle seconde possibilità.
Può esistere una seconda possibilità per una persona che ha compiuto un atto talmente orribile che neanche lei riesce a perdonare a se stessa?
Rhoda cerca di scoprirlo nel rimettere insieme la propria vita e nel provare a fare ammenda, ma le cose non vanno esattamente nella maniera in cui aveva previsto.
In circa 90 minuti di film la seguiamo col fiato sospeso, solo parzialmente interessati alla vicenda della seconda Terra, che però si rivelerà cruciale, fino alla conclusione che si consuma negli ultimi 10 minuti finali, lasciandoci interdetti a riflettere su di essa per qualche minuto. Oppure per qualche altro giorno, come è capitato a me.
Nel centro della capitale britannica, nel cuore della City of Westminster, contornato su tre lati dai Buckingham Palace Gardens, dal Green Park e dal St James’s Park, troviamo la residenza ufficiale del sovrano del Regno Unito: Buckingham Palace, detto anche semplicemente The Palace.
Nonostante sia una costruzione relativamente giovane, il suo nome di fatto viene usato per indicare la stessa monarchia britannica.
Il palazzo svolge questo ruolo dal 1837 ed è anche ufficio amministrativo del monarca, la Regina Elisabetta II. Si estende su una superficie di 77.000 mq e include qualcosa come 775 stanze.
Proprio di fronte a esso sorge il Victoria Memorial, un enorme scultura che raffigura su un lato la Regina Vittoria e sugli altri tre degli angeli, il tutto sormontato da una statua della vittoria alata attorniata da due figure sedute. Al di là di questo monumento parte la lunga via denominata The Mall che collega il palazzo all’Admiralty Arch, oltre il quale c’è Trafalgar Square.
Buckingham Palace è senza dubbio un’importante meta turistica per chi visita Londra. Durante l’estate i Saloni di Stato, che sono 19, sono aperti al pubblico.
È possibile ottenere maggiori informazioni sulla visita delle State Rooms, delle Royal Mews (le scuderie reali) e della Queen’s Gallery nel sito della Royal Collection, dove è anche possibile prenotare i biglietti e scoprire le attuali mostre.
Ma una cerimonia che attrae particolarmente i turisti durante tutto l’anno è il cambio della guardia, una vera e propria parata che si svolge tra la piazza antistante il palazzo e il suo cortile interno.
Il palazzo, The Mall, Green Park e il cambio della guardia appaiono anche ne “ Il mentore”, in uno dei post sul blog di Mina, dove la nostra serial killer percorre la lunga via e si ritrova in mezzo alla folla dei turisti, mentre sta pedinando Christopher Garnish. La sequenza poi continua e arriva fino al suo epilogo a Holloway.
Buckingham Palace è anche molto vicino a New Scotland Yard, la sede della Polizia Metropolitana, e alla stazione della metropolitana di St James’s Park, che, sempre ne “ Il mentore”, è teatro di un inseguimento dello stesso Garnish da parte di Eric Shaw e della detective Miriam Leroux.
L’intera area che circonda il palazzo include altri luoghi di interesse turistico, come il numero 10 di Downing Street (residenza del primo ministro), la sede del parlamento col suo famoso Big Ben, l’ Abbazia di Westminster e la Cattedrale di Westminster (cattolica; che compare in un altro mio libro: “ L’isola di Gaia”).
Contrariamente a quanto molti credono, Buckingham Palace non appartiene alla Regina, ma è un bene statale, su di esso però la presenza di Elisabetta II viene segnalata dallo sventolare dello stendardo reale (come nella foto che mi ritrae davanti al palazzo nel 2011 e in quella della vittoria alata; non si distingue bene perché è piccola, ma vi assicuro che la bandiera che si vede sventolare è proprio lo stendardo).
In sua assenza, dal 1997, questo è sostituito dalla bandiera del Regno Unito, la Union Flag, che viene tenuta a mezz’asta in caso di lutto reale o nazionale.
Oltre che durante ogni cambio della guardia, che soprattutto la domenica richiama a sé moltissime persone, di recente la piazza di fronte al palazzo è stata invasa da una folla molto più consistente durante il giubileo d’oro della Regina nel 2002 (50 anni di regno) e durante quello di diamante nel 2012 (60 anni di regno).
In entrambi gli eventi sono stati organizzati dei concerti e degli artisti hanno suonato dal tetto del palazzo, ma, in particolare nel 2002, Brian May, chitarrista dei Queen (la band, non Elisabetta!), ha suonato dal tetto l’inno nazionale del Regno Unito “God Save The Queen”, brano con cui di solito la band britannica conclude ogni suo concerto, accompagnato da Roger Taylor e altri musicisti sul palco nella piazza.
Di Carla (del 01/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 3650 volte)
Il primo Bosch non si scorda mai
Non avevo mai letto nulla di Connelly in passato e ammetto che sono stata attratta da questa serie, poiché è stata portata alla mia attenzione dall’esistenza di una trasposizione televisiva prodotta da Amazon Studios. A parte ciò non sapevo nulla del protagonista, Harry Bosch, né avevo letto la trama di questo primo romanzo. Ho solo deciso di prenderlo e leggerlo, per poi rimandare i giudizi a dopo.
Be’, è stato un colpo di fulmine.
Sono subito riuscita a creare un forte legame con questo personaggio così pieno di difetti da essere un perfetto anti-eroe. Harry beve troppo, fuma troppo, dorme poco, mangia poco, è indisciplinato, cosa che l’ha portato a venire esiliato nella Omicidi di Hollywood. Ma Harry è scaltro, testardo, dotato di un grande intuito, che in passato gli ha procurato notevole successo. Nonostante la sua vita sia diventata problematica, fa di tutto per portare a termine il proprio lavoro, in particolare, come accade in questo libro, se si rende conto che in qualche modo è finito pure lui coinvolto nel caso.
Infatti non ci troviamo di fronte a un giallo, ma a un crime thriller. Il grado di coinvolgimento del protagonista sia con la vittima che con uno dei responsabili della sua morte lo rende parte integrante della trama principale, facendo sì che il personaggio subisca una crescita lungo l’arco della storia.
È anche vero che la delusione cui incorre (non specifico a che proposito per evitare spoiler) potrebbe bloccare questo processo e fare in modo che il personaggio si ripeta tale e quale nei libri successivi, ma l’esistenza di una sottotrama complessa mi fa ben sperare.
Ho trovato molto interessante la ricostruzione storica relativa ai topi delle gallerie in Vietnam. Una cosa che apprezzo parecchio nei romanzi che leggo è la loro capacità di insegnarti qualcosa di inatteso e “La memoria del topo” ci è riuscito.
Inoltre è suggestivo leggere una storia ambientata in un periodo in cui la gente usava ancora il telefono fisso per comunicare, non c’erano i cellulari e l’accesso ai computer era difficile persino per un detective della polizia. Tutto ciò rende l’investigazione più complessa e avvincente.
L’introspezione del personaggio è magnifica. Non si può non amarlo e non volerne sapere di più.
La trama è superintricata, non scade mai nella banalità, costringendoti a leggere con estrema attenzione tutto il romanzo.
La struttura in lunghe parti (suddivise nei pochi giorni in cui si svolge la storia) ti spinge a leggere il più possibile e così il romanzo scorre via veloce, nonostante il numero consistente di pagine.
Personalmente poi l’ho trovato di grande ispirazione durante la scrittura di un mio libro caratterizzato da un mood simile e questa scoperta è stata per una la ciliegina sulla torta che ha reso la lettura ancora più soddisfacente.
Insomma, in generale posso dire che si tratta di un gran bel romanzo e senza dubbio leggerò anche i successivi.
Ricordo ancora quella notte in cui, seduta sul mio letto, stavo leggendo la scena de “Il silenzio degli innocenti” in cui Clarice entra nella casa di Buffalo Bill.
Avevo le palpitazioni.
E non scherzo.
Ho letto tantissimi libri nella mia vita, alcuni davvero belli ed emozionanti, ma solo “Il silenzio degli innocenti” mi ha fatto sentire così. Mentre lo leggevo, io ero Clarice e, tra la paura e l’orrore, perlustravo quella casa in cerca della figlia della senatrice. Ero anche quella ragazza (non ricordo il suo nome) che, bloccata nel pozzo, implorava Clarice che non la lasciasse sola. Ma Clarice doveva prima trovare il serial killer, affinché entrambe fossero al sicuro.
Tutti i romanzi di Thomas Harris, per quanto siano solo cinque, hanno sortito in me lo stesso effetto: mi sentivo dentro la storia e dovevo leggere in qualsiasi momento, qualunque cosa stessi facendo.
Nessun altro autore è mai riuscito a catturarmi così tanto con la propria prosa da spingermi a leggere fuori dai luoghi e tempi soliti che dedico a questa attività. C’è qualcosa nel suo modo di narrare unico che è in perfetta sintonia con me, senza la minima sbavatura, per cui quando mi viene chiesto quale sia il mio autore preferito, intendo il primo in assoluto nella mia graduatoria, la risposta è solo una: Thomas Harris.
Gli altri vengono molto dopo.
Su di lui non si sa molto, essendo una persona molto discreta, sfuggente alla stampa. Sappiamo che in trentuno anni ha scritto cinque libri e che ne sono passati dieci dall’ultimo. Da ognuno di essi è stato tratto un film di successo, dal suo secondo libro “ Red Dragon” (precedentemente pubblicato col titolo “ Il delitto della terza luna” e “ Drago rosso”) addirittura due. Pare che abbia riferito a Stephen King che per lui scrivere è una vera tortura e questo spiega il perché sia così poco prolifico.
Nel mio piccolo lo comprendo perfettamente. Scrivere è davvero una tortura, ma di certo lui è più fortunato di me, perché può permettersi poco più di un libro per decennio, visto il successo che hanno!
Come molti, l’ho conosciuto con “Il silenzio degli innocenti”, ma il mio preferito dei suoi libri è “Hannibal”, dove la figura di Lecter, il perfetto antieroe, viene mostrata in tutto il suo splendore al lettore. Non è un caso che il dottor Hannibal Lecter, il serial killer detto anche il cannibale, per l’abitudine di nutrirsi di alcuni organi delle sue vittime, sia anche il mio personaggio letterario preferito.
Ciò che adoro dello scrivere di Harris è la sua incredibile capacità di sviluppare un personaggio dalle chiare connotazioni negative, ma riuscire comunque a farmelo amare. Nessuno come lui riesce a stravolgere lo stesso concetto di bene e male.
In “Hannibal” in particolare non esiste un buono in senso stretto. C’è tanta di quella cattiveria nei personaggi che Lecter diventa l’eroe della storia a tutti gli effetti. E il modo in cui viene mostrato ciò che alberga nella sua mente (il palazzo della memoria) mi fa comprendere le sue motivazioni, il perché sia diventato quello che è, fino a immedesimarmi in lui e accettare le sue azioni, la sua cattiveria.
Harris mi ha dimostrato che un cattivo vero come Lecter (e lui lo è senza dubbio, poiché non vi è in lui alcun rimorso né la minima ricerca di redenzione) può essere l’eroe di un romanzo, apprezzato e riconosciuto come tale da tantissimi lettori.
Lecter fa la sua prima e breve comparizione in “ Red Dragon”. Il primo film tratto da questo romanzo è “ Manhunter - Frammenti di un omicidio” con William Petersen (il Gil Grissom di CSI), dove Lecter, qui stranamente chiamato Lecktor, è interpretato da Brian Cox. La sua seconda trasposizione cinematografica, “ Red Dragon” con Edward Norton, vede invece Anthony Hopkins riprendere il suo ruolo nel 2002, dopo “ Il silenzio degli innocenti” (1991) per cui vinse l’Oscar nel 1992 come migliore attore protagonista (lo vinsero anche Jodie Foster nel ruolo di Clarice, il regista Jonathan Demme, lo sceneggiatore Ted Tally e lo stesso film) e dopo “ Hannibal” (2001).
L’ultimo romanzo della serie, “ Hannibal Lecter - Le origini del male”, è stato pubblicato nel 2006 e racconta la gioventù del personaggio. La storia di Hannibal, invece, si conclude con “ Hannibal” (pubblicato 1999), che ha un finale completamente diverso da quello del film.
A questo personaggio è stata anche dedicata una serie TV, “ Hannibal”.
Prima della serie di Lecter, Harris ha scritto “Black Sunday” (1975), un romanzo che racconta di un attentato terroristico con un dirigibile ai danni dello stadio di New Orleans, dove si sta disputando il Super Bowl. Anche in questo l’autore investiga nell’animo dei cattivi, mostrando senza filtri al lettore la logica delle loro intenzioni e delle loro azioni.
Ricordo di aver iniziato a leggere il libro nel 2001 e di essere stata costretta a interrompere momentaneamente la lettura dopo gli attentati dell’11 settembre, poiché mi risultava troppo realistica. L’ho poi ripreso anni dopo e terminato in pochissimi giorni.
Dopo “Hannibal - Le origini del male” mi sono chiesta cosa Harris avrebbe mai potuto scrivere, visto che la serie di Lecter pareva conclusa. Certo, ci sarebbe tanto da raccontare tra la fine di questo romanzo e l’inizio di “Red Dragon”, ma non so fino a che punto avrebbe senso farlo. Lecter è già perfetto così. Piuttosto sarei curiosa di sapere quali altri terribili personaggi dimorano nella sua mente. Vorrei conoscerli.
Non ho idea di cosa stia facendo Harris adesso, ma spero vivamente che si stia torturando almeno un’ultima volta per regalarci un’altra sua bellissima opera.
Di Carla (del 05/09/2016 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2306 volte)
Fantascienza hard d’altri tempi
So bene di trovarmi al cospetto di un classico della fantascienza scritto negli anni ’50 del secolo passato, ma sono ovviamente costretta a giudicarlo in base ai miei gusti di lettrice di questi tempi.
Si tratta di uno dei primi esempi di fantascienza hard, cioè che cerca di basarsi sulla scienza reale, ma, essendo un romanzo del 1951, la maggior parte della scienza è sorpassata. Quindi va presa così com’è.
La storia suona fredda e lineare, nonostante ci siano dei passaggi che sulla carta dovrebbero emozionare, sia riguardo alla sfera personale del protagonista sia riguardo agli eventi avventurosi e le scoperte di cui è testimone. Ciò fa sì che il romanzo appaia come un resoconto che non coinvolge durante la lettura.
La contemporanea presenza di questi due aspetti purtroppo non mi ha fatto apprezzare il libro.
Ho letto altri classici che raccontano un Marte totalmente diverso da ciò che poi si è rivelato essere, ma il modo in cui erano scritti li rendeva comunque godibili, poiché mi permettevano di emozionarmi insieme al protagonista, penare con lui. Si creava un forte legame lettore-protagonista che superava tutte le assurdità scientifiche e gli aspetti anacronistici della storia.
In questo libro non sono riuscita a creare questo legame. L’ho trovato semplicemente noioso e temo che non mi abbia lasciato nulla alla fine della lettura.
So bene che questo è un rischio che si corre leggendo i classici, poiché alcuni di essi sono lo specchio di un tipo di narrativa molto diversa da quella contemporanea e che di conseguenza non a tutti piace al giorno d’oggi. Sicuramente non a me.
Ho comunque apprezzato alcune suggestioni generate dall’ambientazione fantasiosa.
L’edizione che ho letto è anche il n. 1 di Urania e non so fino a che punto si discosti dal testo originale (so che c’è stato un certo rimaneggiamento durante la traduzione). Magari avrei apprezzato di più il libro nel complesso o almeno la prosa di Clarke nella versione originale.
Di Carla (del 06/09/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 6141 volte)
La trasmissione su Fox Italia di questa serie canadese venne anticipata da una grande pubblicità che puntava sul fatto che si trattasse di una prima mondiale. “ The Listener” in realtà venne trasmesso in Italia e in altri paesi qualche giorno dopo la sua prima canadese (3 marzo 2009), ma alcuni mesi prima di quella statunitense.
Non so come, visto che in generale non vado matta per le serie che abbiano a che fare con il paranormale, ma mi ritrovai comunque a guardarla dalla prima puntata fino all’ultima nel 2014.
La serie aveva come protagonista un paramedico, Toby Logan (interpretato da Craig Olejnik), dotato di capacità telepatiche. Toby riusciva a leggere il pensiero, che si trattasse di suoni, immagini o parole, e a causa di questo talento si ritrovava coinvolto, suo malgrado, nella risoluzione di casi di omicidio.
La prima stagione lo vedeva interagire con una detective, Charlie Marks (interpretata da Lisa Marcos; la prima a sinistra nell’ultima foto), ma ciò avveniva in maniera quasi fortuita, poiché Toby durante il suo servizio in ambulanza si trovava spesso a intervenire dove era avvenuto un crimine e a leggere la mente delle vittime, prima che morissero, o di altre persone coinvolte. Parallelamente ai singoli casi c’era una sottotrama relativa al passato di Toby e all’origine di questa sua capacità.
Devo dire che la serie non era eccezionale, ma si lasciava guardare con piacere, complice l’ambientazione di Toronto, sicuramente meno inflazionata di altre, e la presenza di un buon cast di attori poco conosciuti. Il fatto di essere una serie canadese la rendeva distintamente diversa da quelle americane nel modo in cui venivano trattati alcuni temi, presentando meno cliché e più elementi originali. L’aspetto drammatico era poi stemperato dalla presenza di un personaggio ironico: Osman Bey (interpretato da Ennis Esmer), detto Oz, vale a dire il collega di Toby. La sottotrama, infine, era intrigante e spingeva alla visione della puntata successiva.
Dopo la prima stagione (vedi il cast nella foto accanto) la serie subì una rivoluzione, poiché vennero sostituiti gli sceneggiatori e il suo stesso creatore, Michael Amo, smise di lavorarci.
Invece di trovarsi lui per caso coinvolto nei crimini, Toby veniva ogni volta chiamato da una sergente della IIB (una speciale unità investigativa), Michelle McClunsky (interpretata da Lauren Lee Smith, che avevo già visto nella stagione nove di “ CSI” e successivamente ha avuto un ruolo importante nella miniserie di fantascienza “ Ascension”), tanto che a partire dalla terza smise di fare il paramedico e iniziò a lavorare nel team come consulente. Solo in pochi (anche se il loro numero tendeva ad aumentare) sapevano di questa sua capacità e ufficialmente era considerato un esperto delle microespressioni facciali in grado di capire se una persona fosse sincera o meno.
A causa di ciò la sottotrama sparì completamente lasciando spazio a un andamento episodico della serie che diventò quasi di natura procedurale. “The Listener” perse in originalità, ma acquistò in ritmo e azione. L’intenzione era probabilmente quella di attirare un pubblico più ampio e parve funzionare, poiché si andò avanti fino alla sua conclusione programmata con la quinta stagione.
Negli USA la serie non andò particolarmente bene, mentre in Italia è stata addirittura la seconda serie più guardata di sempre di Fox.
Sappiamo bene che la finzione altera molti degli aspetti relativi all’analisi delle prove fisiche durante un’investigazione. Prima di tutto esalta la sua importanza, quando nella realtà il più delle volte le prove fisiche portano a ben pochi risultati conclusivi per l’individuazione del colpevole.
In secondo luogo, le tempistiche non corrispondono a quelle reali. I tempi morti non sono divertenti, perciò nella finzione tutto avviene in maniera molto rapida, bastano pochi minuti o secondi per trovare un riscontro, perciò il colpevole viene individuato in un giorno (nelle serie TV) o in pochi giorni (nei film e nei romanzi).
Anche la tecnologia è ben lontana da quella reale. A parte la rappresentazione di apparecchiature fantascientifiche, vale a dire che non esistono (ancora), i laboratori di scienza forense vengono sempre descritti come estremamente moderni e che possono contare sulle ultime tecnologie sul mercato, inoltre hanno un personale numeroso e molto tempo per dedicarsi ai casi, senza nessun lavoro arretrato.
Nella realtà i finanziamenti per questi laboratori non sono mai così abbondanti, il personale non è sufficiente per stare al passo con i crimini e quindi il lavoro arretrato è la normalità, diventando uno dei principali motivi per cui la risoluzione dei casi può richiedere mesi o anni, quando vengono risolti.
Inoltre, alcuni laboratori possono persino essere assenti nel territorio in cui è avvenuto il crimine, quindi le prove vengono inviate altrove, rendendo ancora più lenta la procedura. Per esempio, lo scorso maggio ho avuto l’opportunità di visitare una caserma della Polizia di Stato nella mia città, Cagliari, dove ci è stato brevemente spiegato anche il ruolo della Polizia Scientifica (da non confondere col RIS, il Reparto di Investigazioni Scientifiche, che fa parte dell’Arma dei Carabinieri e svolge un lavoro analogo). E ho scoperto che a Cagliari non c’è un laboratorio biologico, quindi eventuali analisi del DNA sui reperti vengono fatte a Roma. D’altronde trovare una sorgente di DNA nelle prove fisiche è abbastanza raro e, fortunatamente, i crimini violenti da queste parti sono tutt’altro che comuni, quindi pensandoci bene tutto ciò ha una certa logica, ma, considerando il problema geografico (siamo in un’isola) e la mole di lavoro che di certo esiste già nei laboratori di Roma, non si tratta di una situazione ideale.
Questo già di per sé rappresenterebbe una motivazione sufficiente a impedirmi di ambientare uno dei miei libri nella mia città (oltre al fatto che qui non ci sono mai stati dei serial killer, nel senso moderno del termine).
Infine c’è da considerare la valutazione che questo lavoro poi ottiene in tribunale. Sappiamo che l’effetto CSI può dare l’impressione che i casi vengano risolti e i colpevoli condannati laddove esistono sufficienti prove fisiche, quando in realtà nella maggior parte delle situazioni sono altri tipi di prove a determinare il risultato di un processo.
C’è però un altro aspetto che viene rappresentato in maniera distorta nella finzione che si occupa di scienze forensi: i vari ruoli delle persone che partecipano alle investigazioni.
Nella finzione vediamo le stesse persone raccogliere le prove sulla scena del crimine, analizzarle in laboratorio, identificare i sospetti, interrogare questi ultimi, i testimoni e le vittime (se non sono morte!), e addirittura compiere degli arresti.
La realtà è spesso diversa. Ci sono i cosiddetti investigatori della scena del crimine, che raccolgono le prove sulla scena. Poi ci sono gli scienziati forensi che le analizzano ed eventualmente un medico legale, nel caso di un omicidio. Mentre l’identificazione dei sospetti, gli interrogatori e gli arresti vengono svolti dagli agenti e gli investigatori (i detective, in contesto anglosassone) della polizia. Gli esperti forensi e i medici legali, poi, possono rientrare in gioco nell’aula di un tribunale per illustrare alla corte i risultati dell’esame delle prove fisiche.
Questa compartimentazione, oltre ad avere uno scopo organizzativo (ognuno si specializza in un aspetto, fornendo così una migliore prestazione), è importante per mantenere l’oggettività durante un’investigazione. In certi contesti geografici la separazione tra i vari ruoli è meno netta, ma in altri è totale. Talvolta è tale che, come spesso accade nel Regno Unito, gli investigatori della scena del crimine e/o gli esperti forensi potrebbero non essere affatto dei poliziotti.
Allo stesso tempo però tutte queste persone interagiscono fra di loro, si consultano, perché se ciò non avvenisse si avrebbe una riduzione dell’efficienza. Si cerca, insomma, di trovare un giusto equilibrio che permetta di ottenere il miglior risultato. Poi questo, al contrario di come si osserva nella finzione, può non arrivare o, peggio, essere errato, poiché si parla sempre di persone che possono compiere degli errori.
Esistono poi delle terminologie specifiche che nella finzione non vengono usate o vengono semplificate, anche perché quelle reali tendono a cambiare da un paese all’altro o semplicemente sono troppo lunghe o astruse per essere usate in narrativa.
Un classico esempio è quello dei termini anatomopatologo, medico legale e coroner. Sono tre cose diverse che spesso nella finzione coincidono e possono farlo anche nella realtà, ma non è sempre così. L’ anatomopatologo è uno specialista che individua e analizza le alterazioni di tessuti e organi dovuti a malattia. In genere lavora sui vivi, non sui morti. Può però essere coinvolto in un’investigazione oppure diventare un medico legale, poiché la sua specializzazione è particolarmente adatta per l’individuazione della causa della morte o di altre lesioni nel cadavere di una vittima.
Il medico legale è, in sintesi, la persona che si occupa delle autopsie. Non deve però essere necessariamente specializzato in anatomopatologia. Si tratta di un tipo di carriera lavorativa dove possono convergere dei medici che si sono specializzati in qualcos’altro. Mi viene in mente a questo proposito un esempio della finzione: “ Body of Proof”, dove la protagonista è un neurochirurgo che in seguito a un incidente non può più esercitare e quindi si è messa a lavorare come medico legale (e, come si vede dalla foto sopra, si mette persino a perquisire la scena del crimine).
Infine il coroner è una figura tipicamente anglosassone, anche se il nostro background di finzione americana e britannica può portarci a pensare che esista ovunque. Si tratta di un ufficiale giudiziario che in caso di morti sospette ha il compito di stabilire le circostanze del decesso e l’identità della vittima. Il coroner può essere un avvocato o un medico, quindi talvolta è un medico legale, ma spesso non è così. Ciò dipende anche dalle leggi del singolo paese o addirittura, nel caso di paesi federali (come gli Stati Uniti d’America), dello stato/regione.
E poi c’è la distinzione tra criminologo e criminalista. I due termini hanno significati diversi in paesi diversi.
In inglese, il criminologo (criminologist) è un esperto di scienze forensi, quindi può essere un investigatore della scena del crimine e/o un tecnico forense. Il termine “criminalista” (criminalist) può essere inteso sia come esperto di scienze forensi che come sinonimo di penalista e di psicologo o psichiatra penale. La scelta dell’uno o dell’altro termine varia secondo la diversa variante linguistica (americana, britannica, canadese, australiana, neozelandese, ecc…) e l’uso comune. Tra i due prevale soprattutto il termine “criminologo”, anche perché è quello usato nella finzione. I britannici spesso evitano il termine “criminologo”, che è più americano, ricorrendo a quelli specifici di “investigatore della scena del crimine” (crime scene investigator) e “tecnico forense” o “scienziato forense” (forensic scientist).
E in Italia? Qui l’uso è ancora diverso. La persona che analizza le prove fisiche è definita criminalista.
Il criminologo, invece, è un esperto di criminologia, vale a dire quella scienza che studia i reati, i loro autori, le vittime, i tipi di condotta criminale, la prevenzione dei crimini e il reinserimento dei colpevoli nella società, dopo aver scontato la propria pena. È insomma un campo interdisciplinare che unisce competenze nell’ambito del diritto penale, la psicologia, la biologia, la sociologia e tante altre discipline e che si focalizza sul “chi”, non sul “dove” o il “come”, quindi non partecipa alle indagini né ai processi.
Chi, come me, scrive romanzi in cui si parla anche di scienze forensi deve tenere conto nel target dei lettori, di cui io stessa faccio parte, sia per quanto riguarda le conoscenze terminologiche sia dal punto di vista geografico. Per evitare confusione nel lettore, nei libri della trilogia del detective Eric Shaw ho cercato di utilizzare dei termini semplici, comprensibili e di uso comune. Per questo motivo parlo di “ medico legale” e non dell’eventuale specializzazione del dottor Dawson o del suo assistente, il dottor Collins (che compare per la prima volta in “ Sindrome”). Uso, solo una volta, anche il termine “ coroner”, visto il contesto anglosassone, in una scena de “ Il mentore” a indicare la presenza di questa figura o di un suo rappresentante in una scena del crimine con un cadavere. In realtà nomino il furgone del coroner, senza specificare chi sia il coroner.
Dovendo poi indicare il ruolo dei personaggi che lavorano per la scientifica di Scotland Yard con un termine unico e di largo uso nella finzione, ho usato il generico “criminologo” (se la storia fosse stata ambientata in Italia sarebbe stato sbagliato) invece che “investigatore della scena del crimine” o “scienziato forense”, che suonano troppo tecnici o semplicemente ingombranti in un romanzo per indicare la persona che sta parlando, sebbene siano quelli più corretti in un contesto britannico.
Infine, per fare onore all’abitudine di serie TV, film e altri romanzi di utilizzare i personaggi in tutte le fasi delle indagini, i miei criminologi vanno sulla scena, fanno le analisi in laboratorio, ma sono anche tutti quanti poliziotti (cosa non sempre vera nel Regno Unito), non solo il detective ispettore capo che dirige la squadra (Eric Shaw), quindi interrogano le persone, partecipano agli inseguimenti e arrestano i criminali, e a differenza della maggior parte dei veri poliziotti britannici portano addirittura un’arma da fuoco.
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