Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una delle prime cose di cui abbiamo bisogno per colonizzare Marte è l’acqua. Come sappiamo, l’acqua è essenziale per la vita come noi la conosciamo. In media una persona è costituita per il 65% da acqua e tutti i processi biologici utilizzano l’acqua come solvente.
Perché proprio l’acqua?
Non è un caso che l’acqua sia diventata la sostanza alla base della vita. L’acqua, tanto per iniziare, ha la particolare caratteristica di trovarsi in forma liquida all’interno di un intervallo di temperature molto elevato (dai 0 ai 100°C) a una pressione pari a 1 atmosfera. Il punto di ebollizione dell’acqua è molto più elevato di quello di altre sostanze con una massa simile e questa differenza, che la rende così importante, è dovuta alla sua struttura chimica.
È una molecola costituita da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno (H 2O). I due atomi di idrogeno solo legati entrambi all’unico atomo di ossigeno in modo tale che gli elettroni non sono distribuiti in maniera uguale tra gli atomi. Gli atomi di idrogeno, infatti, presentano una piccola carica positiva, mentre l’atomo di ossigeno ha una piccola carica negativa. Questa polarità fa sì che si creino dei legami (chiamati legami a idrogeno) tra gli atomi di molecole diverse.
I legami a idrogeno non sono tanto forti, ma lo sono abbastanza da tenere le molecole vicine anche a temperature elevate, rendendo l’acqua poco volatile.
Oltre essere la causa dell’elevata temperatura di ebollizione dell’acqua, i legami a idrogeno determinano la disposizione ordinata delle molecole nello stato solido, che risulta essere meno denso di quello liquido. Per questo motivo il ghiaccio galleggia sull’acqua e fa sì che la vita sia possibile al di sotto di esso.
Tutto questo discorso vale sulla Terra, a una pressione di 1 atmosfera o 1013 millibar.
E su Marte?
Sappiamo che in passato Marte aveva oceani, laghi e fiumi. Abbiamo le prove geologiche del passaggio e della presenza dell’acqua. Ciò era reso possibile dalla presenza di un’atmosfera molto più spessa di quella attuale e, di conseguenza, di temperature più elevate (immagine sopra: confronto tra Marte oggi e in passato; fare clic sull’immagine per guardare il video di NASA Planetary Science).
Al giorno d’oggi (e da qualche miliardo di anni), come vi ho raccontato nell’articolo precedente, la pressione sulla superficie di Marte oscilla tra i 6 e gli 11 millibar. In questa condizione anche all’equatore, dove la temperatura può raggiungere i 15-20°C, l’acqua non può esistere allo stato liquido, poiché il suo punto di ebollizione è inferiore a questi valori. Ciò fa sì che questa sostanza essenziale per la vita si trovi solo allo stato solido oppure a quello gassoso.
È stato scoperto recentemente che durante l’estate marziana si formano in alcune aree, in corrispondenza di pendii, delle linee scure ricorrenti (individuate dalla fotocamera HiRISE del Mars Reconnaissance Orbiter della NASA; foto sotto: linee ricorrenti in Juventae Chasma, NASA/JPL), che sono state attribuite alla presenza di acqua che, dalle profondità del terreno, emerge e si scioglie. Di fatto quest’acqua riesce a trovarsi (forse) in forma liquida solo perché è ricca di sali che ne innalzano il punto di ebollizione. Ma pare anche che la presenza in questo stato sia solo transitoria e caratterizzata dal suo successivo passaggio allo stato gassoso, e che le linee ricorrenti siano di fatto provocate dallo spostamento di materiale granuloso.
Perciò pensare di andare a raccogliere acqua da questi ruscelli temporanei è fuori discussione.
Su Marte, comunque, ci sono delle fonti ben più evidenti di acqua: il ghiaccio delle calotte polari. Ciò è particolarmente vero per il polo nord (foto sotto: calotta del polo nord di Marte vista da HiRISE/NASA), dove il ghiaccio d’acqua è facilmente raggiungibile, mentre al polo sud questo è intrappolato sotto una calotta di ghiaccio secco (anidride carbonica solida).
In teoria potremmo andare a prendere l’acqua al polo nord di Marte, ma ciò non sarebbe pratico se decidessimo di costruire una colonia umana in altri luoghi del pianeta, con un clima più mite e con un’esposizione più regolare ai raggi solari (che potrebbero tornarci utili per produrre energia).
Secondo varie ricerche, pare che notevoli quantità di ghiaccio siano presenti anche a latitudini più basse, ma in profondità. Se si riuscisse a individuare uno di questi depositi, sarebbe un’ottima idea stabilirsi sopra di esso ed estrarre ghiaccio d’acqua dal sottosuolo.
Inoltre, non è del tutto da escludere l’idea che nel sottosuolo si creino delle condizioni di pressione e temperatura tali da permettere l’esistenza di acqua liquida, magari termale (una teoria che compare spesso nella narrativa di fantascienza e che ho usato anch’io in “ Deserto rosso” e in “ Ophir. Codice vivente”), ma non è affatto semplice trovarla. IMPORTANTE AGGIUNTA DEL 2019. Nel luglio 2018 è stata annunciata la scoperta di un lago subglaciale di acqua liquida (soluzione acquosa di sali) vicino al polo sud marziano, grazie al lavoro svolto da un team di ricerca italiano, capeggiato da Roberto Orosei, con lo strumento MARSIS, che si trova a bordo dell’orbiter dell’ESA Mars Express. Per maggiori informazioni è possibile leggere e seguire i link in questo articolo.
In realtà esiste però una grande quantità di acqua diffusa su tutto il pianeta, sebbene a basse concentrazioni, intrappolata in forma solida o parzialmente liquida (in presenza di sali) nelle rocce e nel terreno, in particolare nella regolite (lo strato più superficiale costituito da sabbia, polvere, piccole pietre; nella foto: particolare della sabbia di Marte ripreso dal rover Curiosity, NASA/JPL).
E (come ho scritto in “ Deserto rosso”) è assolutamente possibile estrarre l’acqua da questo materiale. Prima di tutto lo si deve raccogliere e portare in un ambiente chiuso con una pressione simile a quella terrestre, in cui l’acqua può esistere allo stato liquido. Quindi lo si scalda prima per scioglierla e poi per farla evaporare. Il vapore viene quindi separato e poi condensato. In pratica l’acqua verrebbe separata dalla regolite tramite distillazione.
Questa conterrà ancora numerose sostanze tossiche, che possono essere eliminate tramite un processo di purificazione. L’acqua viene fatta passare attraverso una resina a scambio ionico (una tecnologia già usata per addolcire le acque dure), in cui queste sostanze vengono sostituite con altre non pericolose, come il sodio.
Come potete vedere, si tratta di tecnologie esistenti e relativamente semplici da applicare. L’unico problema è che richiedono una notevole quantità di energia, visto il notevole fabbisogno d’acqua dei colonizzatori.
Infatti, un essere umano assume in varie forme più di due litri d’acqua al giorno, inoltre ha bisogno di acqua per l’igiene personale. Ma c’è anche da considerare che consuma tanta acqua quanta ne perde. Per questo motivo è possibile controllare i consumi di acqua tramite l’implementazione di tecnologie che ne consentano il riciclo completo (o quasi), come quelle tuttora utilizzate sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Il riciclo è possibile grazie alla cattura del vapore acqueo che si concentra nell’aria all’interno dell’habitat e di quello recuperato dalle tute spaziali dopo l’uso, cui si aggiungono tutte le acque usate. Tutta l’acqua raccolta viene sottoposta a filtrazione, prima per rimuove materiale solido e particolato, poi impurità organiche e inorganiche, infine subisce un’ossidazione catalitica,che elimina composti organici volativi e tutti i microrganismi.
Tutto questo, manco a dirlo, richiede altra energia. E proprio di come produrre energia su Marte parlerò nel prossimo articolo.
Tutte le foto di Marte sono della NASA. Fate clic sulle immagini per vederle nelle dimensioni originali.
Di Carla (del 16/11/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2224 volte)
Il futuro del passato
Quattro anni fa mi capitò di leggere “Le orribili salamandre”, il seguito di questo libro, e lo apprezzai notevolmente, nonostante si tratti di un tipo di fantascienza a dir poco vintage.
“I coloni dello spazio” chiarisce gli eventi precedenti, cioè racconta il viaggio dell’equipaggio del Colonist fino al pianeta Bel, con tutte le sue difficoltà. A mio parere presenta una minore originalità del successivo, tale che soffre di più il passaggio del tempo, ma è stata comunque una lettura piacevole con alcuni imprevedibili risvolti e persino un po’ di azione.
Uno degli episodi più interessanti è il breve soggiorno in un pianeta apparentemente disabitato, resosi necessario per svolgere una riparazione. Due dei personaggi principali, il dottor Hyde ed Eleanor, si allontanano per raccogliere dei campioni e ben presto la situazione precipita.
Alcuni problemi incontrati durante il viaggio si risolvono con eccessiva facilità, ma tutto il romanzo ha un ritmo molto rapido e una trama lineare, che, come il successivo, lo rende una lettura perfetta per i più giovani e per chi, come me, qualche volta desidera viaggiare nello spazio con la fantasia senza troppo impegno.
La traduzione, purtroppo, non è delle migliori. Il traduttore è caduto in qualche falso amico (per esempio, il silicio, silicon in inglese, è diventato silicone) e il testo ha una notevole quantità di refusi, ma ci sono anche dei passaggi che rimangono gradevoli nonostante la stessa traduzione risalga agli anni ’80. Nel modo di esprimersi dei personaggi, ma anche in tutto il testo in generale, c’è un senso di formalità d’altri tempi che facilita l’immedesimazione in questo futuro del passato, in cui si viaggia da un sistema stellare all’altro, in cui si domina la gravità, ma si usano ancora le schede forate per i computer.
Il bello della narrativa è che anche uno scenario impossibile come questo, nel momento in cui lo si legge in un libro, appare del tutto plausibile.
Conoscete la mia passione per il quarto pianeta del sistema solare, vale a dire Marte. Ne sono affascinata da una ventina di anni, da quando nel 1997 il rover Sojouner, inviato con la missione della NASA Mars Pathfinder, ha iniziato a scorrazzare (si fa per dire) tra le rocce e la polvere del pianeta rosso e a inviare delle immagini mozzafiato di un mondo che, pur essendo alieno, di fatto non pareva tanto diverso dal nostro (foto sotto scattata dal rover Curiosity/NASA).
E infatti Marte per molti versi assomiglia al nostro pianeta. È roccioso, è ricoperto da valli, monti, deserti sabbiosi, non è eccessivamente lontano dal Sole, ha una durata del giorno (detto sol) molto simile a quella terrestre (circa 24 ore e 39 minuti terrestri), un asse con un’inclinazione tale da conferirgli un’alternanza di quattro stagioni anch’essa simile alla nostra, e soprattutto possiede gli elementi e le molecole necessarie alla vita, come carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno e persino acqua, sia in forma solida sia, come si è scoperto recentemente, liquida (non pura). Queste condizioni esistono adesso, ma esistevano ancora di più miliardi di anni fa, quando Marte aveva un’atmosfera più densa e un clima più caldo (e quindi aveva laghi, fiumi e oceani), nello stesso periodo in cui compariva per la prima volta la vita sulla Terra.
Per questo motivo è abbastanza probabile che la vita, nella sua forma microscopica, sia esistita su Marte in passato, e forse addirittura che continui a esistere in luoghi del pianeta che possiedono le stesse condizioni trovate in alcune regioni della Terra dove sappiamo che vivono organismi estremofili.
Tutto ciò rende Marte un luogo interessante per studi nell’ambito dell’astrobiologia e nello specifico dell’esobiologia ( il campo di ricerca di Anna Persson, la protagonista di “ Deserto rosso”).
Ma, nonostante le condizioni ambientali di Marte siano drammaticamente cambiate negli ultimi 3,7 miliardi di anni, con la perdita di gran parte della sua atmosfera, spazzata via dall’azione dei venti solari a causa di una forza di gravità insufficiente e dell’assenza di una magnetosfera (l’atmosfera di Marte viene attualmente studiata dalla sonda MAVEN della NASA), il pianeta rosso è l’unico corpo celeste del nostro sistema solare ad avere tutte le carte in regola per essere colonizzato dall’uomo, con qualche aggiustamento. E fortunatamente è anche il secondo pianeta più vicino alla Terra (il più vicino è Venere, che però ha condizioni molto più sfavorevoli), cosa che lo rende raggiungibile in tempi accettabili (foto sotto: dune di Marte viste da HiRISE/NASA).
Chiaramente questa affermazione è valida in teoria. Ma in pratica in che modo potremmo vivere su Marte?
È vero, come ho detto sopra, che Marte è molto simile alla Terra. Esistono però delle differenze tutt’altro che trascurabili.
Prima di tutto ha un diametro che è pari a circa la metà di quello terrestre (e al doppio di quello della Luna) e una massa di appena l’11% rispetto a quella della Terra. Ciò si traduce in una gravità di 0,376 g (cioè poco più di un terzo di quella terrestre), che influenza la capacità del pianeta di trattenere l’atmosfera. Possiede due satelliti naturali, Phobos e Deimos, che, a differenza della Luna, viste le piccole dimensioni (sono probabilmente degli asteroidi catturati nell’orbita) non hanno una forma sferica.
Inoltre si trova più distante dal Sole di circa 78 milioni di chilometri rispetto alla Terra. Per questo motivo la durata dell’anno su Marte è di 687 giorni terrestri (quasi il doppio di quella terrestre), che corrispondono a 668,6 sol, al contempo le temperature variano da -140°C a 20°C, con un valore medio di -60°C.
Marte è un pianeta roccioso con una crosta e un mantello simili a quelli terrestri, ma sappiamo poco su ciò che si trova al di sotto di quest’ultimo. Sulla Terra abbiamo un nucleo di ferro solido, avvolto da ferro liquido che ruotando determina la presenza di un campo magnetico permanente che ci protegge dai raggi cosmici. Al contrario, non sappiamo per certo come sia fatto il nucleo di Marte, ma potrebbe essere di ferro allo stato viscoso, vale a dire non in grado di ruotare, in quanto il pianeta non possiede attualmente una vera e propria magnetosfera, la cui esistenza è cruciale per la vita sulla superficie del pianeta.
A ciò si aggiunge il fatto che l’atmosfera di Marte ha una pressione che va da 6 a 11 millibar (quella media della Terra è di 1013 millibar), così bassa da impedire all’acqua pura di trovarsi allo stato liquido (a seconda della temperatura è presente sotto forma di vapore acqueo oppure di ghiaccio), ed è costituita perlopiù da anidride carbonica e pochissimo ossigeno. Quest’ultimo si trova in buona parte intrappolato negli ossidi di ferro che conferiscono il caratteristico color ruggine al pianeta. Un’atmosfera così sottile fornisce al pianeta una protezione molto bassa nei confronti dei raggi ionizzanti provenienti dal Sole, che letteralmente sterilizzano la sua superficie (foto sotto: Phobos e Marte, visti da Mars Express/ESA).
Va da sé che in condizioni del genere, cioè se non vogliamo congelarci o liofilizzarci (secondo la temperatura) istantaneamente oltre che soffocare prima ancora di poter essere uccisi dalle radiazioni, per vivere su Marte abbiamo bisogno di organizzarci un po’.
Tanto per iniziare, ci serve un habitat termostatato, pressurizzato e schermato, delle tute con le medesime caratteristiche per uscire all’aperto e dei mezzi di trasporto. Tutte queste cose ce le possiamo portare dalla Terra. Altre però, vista la distanza dal nostro pianeta d’origine, dobbiamo essere in grado di procurarcele direttamente su Marte. Queste sono essenzialmente quattro: acqua, energia, ossigeno e cibo.
In questa serie di articoli, che come potete vedere hanno un taglio divulgativo, ho intenzione di parlarvi, tanto per iniziare, di come procurarci questi elementi essenziali per poter vivere sul pianeta rosso.
Nell’attesa del prossimo articolo, se non l’avete già fatto, vi invito a iniziare il vostro viaggio su Marte insieme all’esobiologa Anna Persson attraverso la lettura della mia serie di fantascienza “ Deserto rosso” e successivamente con il resto del ciclo dell’Aurora, in particolare la terza parte, “ Ophir. Codice vivente”, che vede ancora una volta come protagonista il pianeta rosso e i suoi misteri.
Tutte le foto sono della NASA o dell’ESA. Fate clic sulle immagini per vederle nelle dimensioni originali.
Nel 2012, prima di iniziare a pubblicare le mie opere originali, trasformai una vecchia fan fiction del film “La Mummia” (quello di Stephen Sommers) scritta nel 2000 in un ebook gratuito, tuttora disponibile, per iniziare a creare intorno a me un piccolo gruppo di lettori e testare la piattaforma di pubblicazione di Smashwords, che poi avrei usato per portare tutti i miei libri su Kobo e iTunes.
Questa fan fiction si intitola “La morte è soltanto il principio” e rappresenta un sequel alternativo del famoso film del 1999 (che aveva come protagonista Brendan Fraser) e soprattutto della sua novelization firmata da Max Allan Collins.
Non ho idea del numero totale di volte che questo ebook è stato scaricato, poiché mi mancano i dati di Kobo, ma considerando solo Smashwords, iTunes e Google Play la cifra che ottengo è di circa 70 mila copie.
L’edizione pubblicata nel 2012 era ovviamente una versione revisionata di quella scritta dodici anni prima. Successivamente nel 2015 ho ripreso in mano il testo e l’ho sottoposto a una revisione più approfondita, facendo tesoro di quanto avevo imparato in tre anni di scrittura e pubblicazione.
E adesso ho deciso di farlo di nuovo, ma, invece di revisionare il testo e solo dopo pubblicare una nuova edizione in sostituzione della precedente, stavolta mi sono rivolta a Wattpad.
Come immagino sappiate, Wattpad è un social network di scrittura e lettura. Gli utenti pubblicano le proprie storie a puntate e i loro follower le leggono e le commentano.
Sono iscritta a Wattpad da qualche anno, ma finora l’ho usato solo per inserire un’anteprima dell’edizione inglese di due miei libri. Circa due settimane fa, invece, ho pensato di usarlo come strumento per diffondere la nuova edizione de “La morte è soltanto il principio”, man mano che procedo con la sua revisione.
Finora devo dire che sto trovando l’esperienza molto divertente. Ho ancora relativamente pochi follower, ma quei pochi si stanno mostrando molto attivi nel commentare i passaggi del testo e talvolta nel darmi una mano a individuare dei refusi che altrimenti mi sarebbero sfuggiti per l’ennesima volta.
Il libro è costituito da tre parti e non è originariamente suddiviso in capitoli, ma per adattarlo alle esigenze di Wattpad sono costretta ad aggiungere questa suddivisione. Non so esattamente quanti capitoli verranno fuori alla fine, ma ho intenzione di pubblicarne almeno uno alla settimana e di finire entro Natale.
Terminata la pubblicazione online, sostituirò l’ebook nei retailer con l’edizione aggiornata, che quindi potrete scaricare sul vostro dispositivo.
Se non avete ancora letto “La morte è soltanto il principio”, vi va di unirvi ai miei follower su Wattpad?
Se prima volete saperne qualcosa di più, eccovi la descrizione del libro.
Londra, 1926 d.C.
Quando Evelyn Carnahan rivede dopo alcuni anni la sua vecchia amica d’infanzia Anne Howard, si rende subito conto di quanto sia cambiata. La ragazza perennemente annoiata e insofferente che ricordava si è trasformata in una giovane donna sicura di sé, per niente addolorata dalla recente morte del marito Robert MacElister, avvenuta in circostanze misteriose durante una campagna di scavi in Egitto.
Inoltre, al suo ritorno a Londra dopo questo viaggio, la giovane vedova ha portato con sé, oltre che una grande quantità di reperti da esporre al British Museum, uno strano egiziano di nome Assad, indossante il tatuaggio dei Med-Jai, gli antichi guardiani di Hamunaptra, la Città dei Morti scoperta non molto tempo prima proprio da Evelyn, suo fratello Jonathan e Rick O’Connell.
Non tutto quello che Anne ha rinvenuto ad Hamunaptra, però, è stato esposto durante la mostra. Due sono gli artefatti che la donna ha deciso di tenere per sé: una mummia malridotta e un libro nero che necessita di una chiave per essere aperto.
Ma ciò che Anne e Assad non sanno è che nel loro viaggio di ritorno sono stati seguiti anche da un’oscura presenza in cerca di una vendetta vecchia di tremila anni.
Nel tentativo di risolvere questo nuovo mistero, i fratelli Carnahan e l’americano Rick O’Connell dovranno ben presto scontrarsi con forze sovrannaturali di gran lunga al di sopra della loro portata e saranno costretti, loro malgrado, a combattere ancora una volta per salvare il mondo.
Nel farlo, però, troveranno in un vecchio nemico un inatteso e potente alleato.
Di Carla (del 25/10/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2820 volte)
Un classico senza tempo
Provo sempre una strana sensazione nell’accostarmi ai classici, poiché presentano modi di narrare che non avrebbero alcun spazio nella narrativa moderna, eppure alcuni di essi conservano l’immutata capacità di coinvolgere il lettore.
Questo è il caso de “La macchina del tempo” di Wells, in cui la voce narrante è un personaggio del tutto secondario che si limita a riferire ciò che il protagonista racconta. Questo tipo di struttura narrativa per così dire “incorniciata” potrebbe creare una certa distanza tra il lettore e gli eventi, ma ciò non avviene affatto in questo libro, poiché il narratore si limita quasi soltanto a presentare il viaggiatore del tempo e a lasciare che parli con la sua voce. E il modo in cui lo fa è così vivido che nella mente del lettore ogni elemento ed emozione descritta diventa immagine, nonostante il linguaggio datato (ho letto il libro in lingua originale), anzi, proprio quest’ultimo contribuisce alla sospensione dell’incredulità. Infatti, ci si ritrova trasportati non soltanto nel lontano futuro in cui si svolgono le avventure narrate dal viaggiatore, ma anche alla fine del diciannovesimo secolo, in cui questi le sta riferendo ai propri amici.
In tal modo la lettura si trasforma anch’essa in un breve ma intenso viaggio.
L’ospite di oggi è una vecchia conoscenza di questo blog: lo scrittore di fantascienza Richard J. Galloway. Autore di “Amantarra” e di “Saranythia Parte 1: Le porte di Setergard”, entrambi tradotti da me, Richard ci offre una sua presentazione di quest’ultimo libro e risponde ad alcune domande che gli ho rivolto.
Trecentomila anni fa la sorella di Amantarra, Saranythia, era partita per svolgere una missione segreta il cui scopo era salvare la sua gente. Da allora non si erano più avute sue notizie. Aveva nascosto così bene le proprie tracce che persino gli individui di una specie avanzata come i Bruwnan non erano stati in grado di trovarla, nemmeno quando la situazione aveva raggiunto un punto critico e il suo aiuto sarebbe stato fondamentale.
Sono passati dodici anni da quando la crisi è stata scongiurata e il controllo della città di Valheel è stato restituito ad Artullus. L’entità che controllava la città non è stata sconfitta, bensì è semplicemente svanita, lasciandosi alle spalle una serie di intricati misteri. Non tutti i cittadini di Valheel hanno fatto ritorno e la maggior parte dei Bruwnan sono tuttora dispersi. Quelli che sono tornati si stanno impegnando per scoprire le ragioni che hanno spinto l’entità a tentare un tale genocidio.
Sulla Terra, intanto, la vita è stata benevola con John ed Elleria, ma non del tutto tranquilla. La sensazione che qualcosa che finora si è celato a loro sia in procinto di rivelarsi non li ha mai del tutto abbandonati e per dodici anni si sono guardati intorno, in attesa. In particolare Amantarra ha tenuto sotto controllo Tyrus, la cui manifestazione in forma umana è coincisa con la scomparsa dell’entità. Tyrus, un agente dell’entità, occupa il suo tempo prodigandosi per trasformare l’azienda di Burnston in un impero, ma mantenendo nascosto il suo vero scopo.
Un giorno, però, Amantarra riceve un invito da una luna situata in un galassia lontana, e da questo momento tutto è destinato a cambiare.
“Saranythia” sarà pubblicato in quattro brevi parti.
In passato mi hai raccontato dell’orologio che ispirato “Amantarra” (in questo post). Esiste un oggetto o un evento particolare che ha influenzato la stesura di “Saranythia”?
No, non c’è stato alcun oggetto né evento, non questa volta. La storia è basata più che altro su una serie di concetti. Sono affascinato dall’inesplicabile, che sia scientifico o meno, e provo l’impulso di tentare di dare a esso una spiegazione. Pensa ai fantasmi: nessuno ha mai provato la loro esistenza eppure continuano a persistere nella cultura umana. Perché?
Ti faccio un esempio parallelo. Alcuni anni fa stavo pensando a un amico che conoscevo ai tempi della scuola. Erano passati anni dall’ultimo volta che l’avevo visto o sentito, poiché viveva a migliaia di miglia di distanza da qui, nell’estremo oriente. Il giorno dopo che ho pensato a lui ecco che me lo ritrovo davanti alla porta di casa. Era in Inghilterra per motivi di lavoro e aveva pensato di farmi una visita. Ora questa è una storia vera, non una leggenda urbana, e funge da spunto alle tre domande che seguono.
1. Il mio amico è venuto a trovarmi perché ho pensato a lui? Causa ed effetto.
2. Ho pensato a lui perché lui stava decidendo di venire a trovarmi? Premonizione.
3. È stata una coincidenza?
Forse tutte e tre erano vere finché una di esse non è accaduta (meccanica quantistica) o forse c’è dietro qualcosa di completamente diverso. Ecco, “Saranythia” è la ricerca di una risposta definitiva ai misteri relativi ai fantasmi e agli amici che per coincidenza riappaiono dopo tanto tempo: è semplicemente accaduto in un altro pianeta.
Perché hai deciso di pubblicare la storia in quattro parti?
Principalmente perché è passato molto tempo dalla pubblicazione di “Amantarra”. A causa di problemi familiari mi è stato difficile scrivere negli ultimi cinque anni. Ora per fortuna tali eventi appartengono al passato, ma ovviamente è trascorso un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ho pubblicato qualcosa, perciò ho deciso di pubblicare “Saranythia” in quattro brevi parti. In questo modo riuscirò a consegnare la storia ai miei lettori molto più in fretta.
“Saranythia Parte 2 - I Varton” sarà pubblicato nell’aprile 2018.
C’è qualche libro, tra quelli che hai letto durante la scrittura di “Saranythia Parte 1: Le porte di Setergard”, che pensi possa averla influenzata?
Amo le opere fantasy di Robin Hobb e sono sicuro che il suo stile di scrittura abbia influenzato la mia scrittura, ma le influenze sono quasi sempre grafiche. Tendo a immaginare una scena molto tempo prima di aver deciso che cosa vi accadrà. Per esempio, la scena di apertura di “Saranythia” è stata ispirata dall’immagine di sfondo del mio computer. Una volta che ho l’ambientazione, appaiono subito i personaggi e iniziano a interagire. Così io mi limito a trascrivere quello che dicono e fanno. Okay, questa è una semplificazione del processo creativo, ma rappresenta l’essenza di ciò che accade.
Cresciuto tra vicino alle industrie del nord-est dell’Inghilterra con Star Trek, Doctor Who e romanzi fantasy, RICHARD J. GALLOWAY si è ribellato al destino segnato dalle scuole che ha frequentato, che imponeva come sua vocazione il lavoro industriale. Dopo aver esaurito l’unica opzione apparente, il suo insegnante era disperato. “Se non vuoi lavorare nelle acciaierie, dove vuoi lavorare?” La sua risposta era sempre: “Non lo so.” Il settore in cui sarebbe finito non si concretizzò che dieci anni dopo. Nessuna meraviglia che il suo insegnante si preoccupasse. Dalla scuola, tramite lo studio del disegno e dell’architettura, alla fine si è trovato a lavorare con i grandi sistemi informatici.
Carriera a parte, il filo che ha legato il tutto è stato la fantasia. Non ha mai perso la sua fascinazione per le immagini che una buona storia sono in grado di evocare. Dopo tutto, gli aveva mostrato dei mondi al di là di questo, e le possibilità al di là delle acciaierie. E continua a farlo.
Richard vive ancora nel nord-est dell’Inghilterra con la moglie, la famiglia, e un grosso gatto chiamato Beano. L’industria pesante si è ridotta, ma il mondo della fantasia di Richard è cresciuto. Spesso si chiede quale consiglio avrebbe ricevuto, se il suo insegnante avesse letto un po’ di fantascienza.
Di Carla (del 11/10/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2036 volte)
Il ritorno del Vuoto
Sette anni dopo aver letto la trilogia del Vuoto, ritorno nell’universo del Commonwealth creato da Hamilton con questo primo libro della dilogia della Chronicle of the Fallers e ritrovo Nigel Sheldon in una nuova storia ambientata appunto dentro il Vuoto. Cronologicamente la storia al di fuori di questa anomalia situata all’interno della nostra galassia si sovrappone in parte a quella della trilogia, ma ha contatti minimi con quest’ultima. Nel Vuoto, invece, conosciamo nuovi personaggi in un nuovo pianeta dove delle astronavi sono state condotte circa duecento anni prima (ma lì ne sono passati tremila): Bienvenido. E abbiamo modo di scoprire anche qualcosa di più sullo scopo dell’esistenza del Vuoto.
Il romanzo, suddiviso in più libri, è lungo e complesso, ma tutti i filoni vengono pian piano riuniti con precisione da parte dell’autore e con grande divertimento del lettore. Accanto alle lotte di classe di una civiltà che da tremila anni vede la propria evoluzione bloccata dall’avversione del Vuoto nei confronti delle tecnologie più avanzate c’è quella contro una nuova specie aliena, che facendo uso di un inganno che di certo non rappresenta una novità nella fantascienza (mi ha subito fatto venire in mente “L’invasione degli ultracorpi”) rappresenta una minaccia subdola e costante per gli abitanti di Bienvenido. Allo stesso tempo, però, si rivelerà una risorsa.
Alla fine della lettura del romanzo, senza dubbio il più bello che abbia letto di questo autore, il desiderio di procurarsi subito il seguito è molto forte. E credo proprio che, per quanto mi riguarda, lo asseconderò presto.
Sono passati quasi quattro anni dall’uscita dell’edizione italiana di “ Amantarra”, il romanzo di fantascienza di Richard J. Galloway di cui io ho avuto il piacere di curare la traduzione, e adesso l’autore sta lavorando ai suoi seguiti nell’ambito della serie intitolata L’ascensione di Valheel.
E anche questa volta sono io ad affiancarlo nella realizzazione dell’edizione italiana.
Ambientato dodici anni dopo gli eventi di “Amantarra”, nella prima parte di “Saranythia” ritroviamo i personaggi del romanzo precedente, sia sulla Terra che a Valheel (la città virtuale costruita dentro una sfera), e scopriamo che ne è stato di loro dopo tutto questo tempo.
Mentre Jack e i Bruwnan continuano la propria esistenza a Valheel e il Bibliotecario porta ancora avanti una quasi impossibile ricerca all’interno della Biblioteca, sulla Terra John, Elleria, Frank e i loro amici (e nemici) stanno ora affrontando la vita adulta, ognuno a modo proprio. Esistono però dei nuovi personaggi che vivono in un pianeta lontano dove il nome di Saranythia, la sorella perduta di Amantarra, è venerato come quello di una divinità e dove un esercito all’interno di una fortezza combatte ogni giorno contro un terribile nemico.
E saranno proprio le loro vicende a coinvolgere alcuni tra i protagonisti del primo libro in un nuovo viaggio.
Tra avventura, tecnologie così evolute da sembrare frutto della magia, e una notevole dose di ironia verrete condotti da Amantarra fino alle porte della fortezza di Setergard.
Ecco la descrizione del libro.
Sono passati dodici anni dalla scomparsa dell’entità misteriosa che ha quasi annientato i Bruwnan. Gran parte degli abitanti sono stati restituiti alla città di Valheel, ma molti sono ancora dispersi.
Qualsiasi tentativo di comprendere lo scopo del genocidio da parte dell’entità, o la sua attuale sorte, è fallito. L’entità è scomparsa per sempre? Nessuno ne è convinto.
Nel frattempo la vita va avanti, accompagnata da un disagevole senso di anticipazione, che sembra destinato a continuare ancora per molto tempo.
Fino al giorno in cui Amantarra riceve un invito.
Il libro successivo, “Saranythia Parte 2: I Varton”, uscirà nel 2018.
Di Carla (del 27/09/2017 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2669 volte)
Una storia coinvolgente e imprevedibile
Ho letto ogni pagina di questo libro con grande curiosità, perché non era il solito thriller dall’atmosfera cupa e drammatica in cui qualcuno prima o poi muore.
A parte il prologo, “The Swimming Pool” ti trasporta nella vita di un’insegnante, una donna normale, Natalie, con un marito e una figlia adolescente, che vive un’esperienza fuori dell’ordinario: fa amicizia con Lara Channing, una celebrità locale. Si trova catapultata in un ambiente patinato che la attrae sempre di più, portandola a trascurare le vecchie amiche e la famiglia.
Cosa c’è dietro tutto questo interesse da parte di Lara nei suoi confronti?
Il bello di questo libro è che non hai la minima idea di dove voglia andare a parare. Qual è veramente il conflitto che lo definisce? Riguarda Natalie, suo marito, sua figlia o Lara? O qualcun altro?
Be’, ogni giorno aspettavo con ansia il momento di immergermi nella lettura per scoprire cosa sarebbe successo.
I personaggi sono ben costruiti e lo svolgimento della trama non è mai noioso, nonostante ci sia pochissima azione. A posteriori, mi rendo conto che questo romanzo è caratterizzato da una struttura molto ben definita, che permette al lettore di non perdersi nei tre piani temporali in cui si svolge.
Durante la lettura intuivo gli sforzi dell’autrice per farmi mantenere l’attenzione sul centro della storia, impedendomi di concentrarla troppo a lungo sulla figlia della protagonista, Molly, ma non mi rendevo conto fino a che punto questo aspetto fosse cruciale.
Il finale, poi, è la cosa più bella di tutto il libro e ha fatto sì che decidessi per le cinque stelle invece che quattro, meritate dal resto del romanzo, in particolare per il modo in cui crea un parallelismo tra madre e figlia.
Questo non significa che “The Swimming Pool” sia un romanzo perfetto.
Non ho apprezzato l’uso fuorviante del prologo, per esempio.
Attenzione, spoiler: il prologo è un sogno, non un evento reale. Per tutto il libro mi sono arrovellata nel cercare di collocarlo nella storia, per poi scoprire che non potevo, poiché non era un evento reale. E questa è stata una delusione.
Come dicevo prima, il romanzo è ben strutturato, ma a tratti lo è fin troppo, tanto da apparire artificioso. Il passaggio tra i vari piani temporali appare forzato dalla necessità di seguire uno schema piuttosto che dare l’impressione di essere spontaneo all’interno dello sviluppo della trama, e ciò mi ha distratto più volte dall’immersione nella lettura.
La protagonista, inoltre, è esageratamente ingenua e debole. È evidente da subito che Lara si è avvicinata a lei per un motivo. In particolare, l’atteggiamento di colpa della protagonista anche alla luce dell’inganno subito è irritante. Natalie ha un’eccessiva bassa considerazione di se stessa. Mi aspettavo da parte sua una reazione, una rivincita. Ciò che aveva fatto da ragazzina non poteva essere paragonato come gravità alle azioni di Lara, perché quest’ultima è un’adulta. Eppure Natalie non si arrabbia veramente, continua a sentirsi in colpa.
Arrivata al penultimo capitolo, che è un lungo noioso resoconto, ho temuto che la storia implodesse. Ma poi questa viene salvata inaspettatamente dall’ultimo capitolo e quasi mi spiace non sia stato dato più spazio al personaggio di Molly, il cui carattere è di certo molto più interessante di quello della madre.
Questo libro è in lingua inglese!
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Ho aperto questa serie di articoli con New Scotland Yard, che dal 1967 fino all’ottobre del 2016 si trovava in un edificio situato al numero 10 della Broadway, e mi pare giusto chiuderla con la sede del Servizio di Polizia Metropolitana di Londra che dal novembre 2016 occupa un edificio su Victoria Embankment: il Curtis Green Building.
Situato lungo il Tamigi, più o meno di fronte al London Eye, il Curtis Green Building deve il suo nome all’architetto che lo progettò negli anni ’30 del ventesimo secolo: William Curtis Green. Si tratta di un palazzo bianco in stile neoclassico costruito tra il 1935 e il 1940 e che è sempre appartenuto alla Polizia Metropolitana londinese. Venne inizialmente utilizzato come un’estensione della sede della polizia, ospitando i dipartimenti di scienze forensi e di tecnologia. Successivamente quando la sede fu spostata nella Broadway, divenne la stazione di polizia di Whitewall fino al 2010.
Il rinnovamento dell’edificio avvenuto tra il 2015 e il 2016 è stato progettato dalla Arup (la stessa azienda che ha dato vita al London Eye e al nuovo tetto dell’area delle partenze della King’s Cross Station) e gli ha donato un tocco di modernità, pur mantenendone la struttura originale. Sul tetto del nuovo ingresso delimitato da una parete a vetro è stata posizionata un’insegna recante la scritta “ New Scotland Yard”, mentre sul suo lato destro è stata installata la famosa insegna rotante, prelevata dalla vecchia sede. All’altra estremità dell’ingresso è invece situata la Eternal Flame, una fiamma sempre accesa in commemorazione degli agenti caduti.
Uscendo dal Curtis Green Building e attraversando la strada ci si trova sul lungofiume del Victoria Embankment, da cui si possono ammirare le costruzioni presenti sulla riva opposta. Se invece ci si incammina in direzione opposta allo scorrere delle acque del Tamigi, ben presto si arriva nei pressi del Big Ben e del Palazzo di Westminster (sede del parlamento britannico).
La Polizia Metropolitana nel trasferirsi al Curtis Green Building, oltre a portare con sé l’insegna rotante, ha spostato anche il Black Museum, che purtroppo continua a non essere aperto al pubblico.
Ovviamente, a meno che non vi facciate arrestare, non è possibile vedere l’interno di questo edificio, ma credo che valga comunque la pena, vista anche la posizione ottimale, avvicinarsi nei suoi pressi per ammirarlo dall’esterno e scattare qualche foto (le immagini in questo articolo sono di David Holt CC 2.0).
Essendo diventato New Scotland Yard, il Curtis Green Building appare nell’ultimo libro della trilogia del detective Eric Shaw, “ Oltre il limite”, proprio in questa veste e soprattutto come sede di una delle squadre (quella di Eric) del Servizio di Scienze Forensi della Polizia Metropolitana.
Numerose scene del romanzo sono ambientate al suo interno, per descrivere il quale ho fatto affidamento sulla mia immaginazione, plasmandolo a mio piacimento in base alle esigenze della storia (in realtà è sostanzialmente diverso). In quest’ultima vediamo soprattutto Eric nel suo nuovo ufficio, il laboratorio informatico, la sala riunioni e anche l’ufficio di Jane. A dirla tutta, non so neppure se nel Curtis Green Building si trovi una qualche sezione del Servizio di Scienze Forensi (il cui laboratorio principale a Londra è situato a Lambeth Road), in ogni caso ho deciso di far muovere i personaggi tra le sue mura per via della sua posizione geografica (di fronte al London Eye) e soprattutto perché, trattandosi di un edificio rinnovato, rappresenta il luogo ideale per un nuovo inizio nella vita di Eric. Ma per capire di cosa sto parlando temo proprio che dovrete leggere il libro.
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