Di Carla (del 29/09/2011 @ 21:59:51, in Serie TV, linkato 2664 volte)
Gli americani mettono le mani, finanziariamente parlando, sullo spin-off di "Doctor Who", dando così origine alla quarta stagione di "Torchwood", sottointitolata "Miracle Day". Ho sempre seguito un po' a macchia di leopardo le vicende della serie originale inglese, ma sufficientemente da trovarmi ad affrontare questo nuovo prodotto proposto dalla Starz (la stessa di "Spartacus", per intendersi) senza particolare difficoltà. Non che ce ne siano eccessive per lo spettatore che abbia a che fare per la prima volta con le vicende di Jack, Gwen e compagni. Basta informarsi un po' e poi il divertimento è assicurato. Questa volta i nostri eroi si trovano di fronte ad un problema di proporzioni immerse. Un bel giorno la gente smette di morire, rimanendo intrappolata nel proprio corpo, anche se gravemente malata o fatta a pezzi. Nello stesso giorno Jack, che era immortale, scopre di essere di nuovo mortale. Chi c'è dietro tutto questo? Difficile dirlo, ma qualunque sia la causa di questo "miracolo" si tratta senza dubbio di un caso per l'Istituto Torchwood o meglio per i suoi ultimi due membri rimasti: appunto Jack e Gwen. Grazie al contributo economico dei produttori americani, la storia ovviamente si sposta negli Stati Uniti, ma non è questo l'unico cambiamento. Il budget superiore permette una maggiore qualità tecnica della serie, per quanto riguarda ambientazioni ed effetti speciali, a cui si aggiunge però l'immutata ironia, trasgressione e soprattutto originalità inglese. Tutto ciò rende "Torchwood: Miracle Day" un prodotto assolutamente godibile dagli amanti della fantascienza, la quale una volta tanto sembra non essere costretta a sottostare al perbenismo (o meglio puritanesimo) americano (nonostante sia una co-produzione Stati Uniti/Regno Unito), fatto che rappresenta sicuramente un enorme punto a suo favore. La serie viene trasmessa su FOX (canale Sky) ogni lunedì, già da tre settimane, dopo la sicuramente meno riuscita "Falling Skies", ed è composta da 10 puntate.
Di Carla (del 19/02/2012 @ 19:59:52, in Serie TV, linkato 3664 volte)
Dopo 19 anni dall'uscita del film omonimo con Tom Cruise, tratto dal libro di John Grisham, approda sul piccolo schermo il sequel de "Il Socio" sotto forma di serie TV. La storia segue ancora una volta le vicende di Mitch McDeere (interpretato questa volta da Josh Lucas) dieci anni dopo gli eventi narrati nel romanzo e nel film, in cui il protagonista aveva contribuito alla caduta di un importante studio legale connesso alla mafia di Chicago. Adesso McDeere, dopo la morte del boss mafioso, esce dal programma di protezione per fondare uno studio legale tutto suo con il fratello Ray. Inizialmente lo studio ha poco lavoro, finché non attira l'attenzione della Kinross & Clark, di Alex Clark, che convince Mitch a diventare proprio socio, perché interessata ad una delle clienti di quest'ultimo. Le prime due puntate della serie vengono trasmesse questa sera in anteprima (e contemporanea europea) su AXN (canale del pacchetto di intrattenimento di Sky), mentre la serie verrà poi proposta per intera ad aprile. In America purtroppo non ha avuto il successo sperato ed è stata spostata al sabato, rischiando di conseguenza la cancellazione.Vedremo cosa succederà in Italia. Il cast, oltre a Josh Lucas, presenta alcune liete sorprese, come Juliette Lewis, che lascia per un po' il palco dei suoi concerti per tornare davanti alla macchina da presa, e due attori che sono senza dubbio dei volti noti al pubblico di AXN, perché già visti nella fortunata serie sci-fi "Battlestar Galactica". Sto parlando di Callum Keith Rennie (nel ruolo di Ray McDeere) conosciuto come il cylone Leoben e di Tricia Helfer (Alex Clark), che interpretava Numero Sei, il cylone simbolo della serie, ma che è stata vista di recente sul piccolo schermo anche nella seconda stagione di "Dark Blue", sempre in onda su AXN (lo scorso autunno). Le premesse insomma sono buone. Non ci resta che attendere questa sera per dare i primi giudizi. "Il Socio" va in onda questa sera alle 21 su AXN e alle 22 su AXN+1.
Di Carla (del 25/02/2012 @ 07:50:59, in Serie TV, linkato 3247 volte)
Da poco più di tre settimane è approdata su Fox la serie TV "Homeland - Caccia alla spia". Ideata dai creatori di "24", questa serie thriller vincitrice del Golden Globe come migliore serie drammatica, che vede come protagonisti la splendida Claire Danes (vincitrice del Golden Globe come migliore attrice in una serie drammatica) e Damian Lewis, narra la storia di un marine, Nicholas Brody (interpretato da Lewis), che dopo otto anni di prigionia nelle mani di Al-Qaeda, viene all'improvviso trovato dai suoi compatrioti e riportato in patria, dove è destinato a diventare un eroe nazionale. Nel frattempo, però, la giovane agente della CIA, Carrie Mathison (interpretata dalla Danes), ha scoperto in seguito ad una soffiata che un prigioniero di guerra è passato dalla parte del nemico. Quando poi viene a sapere della vicenda del tenente Brody, è convinta che sia lui il potenziale terrorista. Devo ammettere che non ero particolarmente attratta dalla storia, per come veniva presentata su Sky, e ho deciso di registrare le prime puntate per poi vedermele con comodo. L'ho fatto questa settimana. Ne ho visto quattro in due giorni e ne sono rimasta folgorata. Non si tratta di un semplice action-thriller, come si potrebbe immaginare trattandosi degli stessi creatori di "24". Prima di tutto lo show è ispirato alla serie israeliana "Hatufim (Prisoner of War)", inoltre risulta essere fortemente incentrato sugli aspetti psicologici dei due protagonisti. Da una parte c'è Carrie, brillante ma problematica agente della CIA. Conosciuta nell'agenzia per i suoi metodi poco ortodossi e per il suo essere indisciplinata, la donna nasconde un grande segreto: è affetta da una malattia mentale per la quale si cura di nascosto con degli psicofarmaci. Per Carrie la vita è incentrata completamente sulla lotta al terrorismo. Non ha una vita privata degna di questo nome, né veri amici (a parte forse il suo mentore Saul Berenson, interpretato da un grande Mandy Patinkin), né una vita sentimentale che vada oltre degli incontri occasionali. Dall'altra parte c'è Nick Brody, fortemente traumatizzato dopo una prigionia di otto anni, in cui è stato costantemente torturato e costretto a fare le peggiori cose. Ha dalla sua una famiglia: una moglie, che lui sospetta abbia una storia col suo migliore amico, una figlia adolescente, con tutti i problemi della sua età, e un figlio più piccolo, che non si ricordava neppure di lui. Il ritorno a casa è estremamente difficile. Perseguitato da incubi e flashback, ha difficoltà a ristabilire un rapporto sereno con i suoi cari, con i quali sa di non poter aprirsi, perché è convinto che non potrebbero capire. Il suo personaggio è ambiguo. Non si capisce se la sua "doppiezza" sia dovuta ai traumi subiti o sia la prova che si è convertito alla causa di Al-Qaeda. Effettivamente non è del tutto sincero con la CIA, ma non ci sono prove reali di un suo coinvolgimento con alcuni avvenimenti recenti, che sembrano presagire la preparazione di un attentato in suolo americano. Carrie, però, sente che Brody è coinvolto e, andando contro gli ordini, decide di scavare nella sua vita, avvicinandosi forse un troppo a lui. Da questa pericolosa interazione potrebbero, però, venire fuori dei risvolti del tutto inaspettati. Adesso non ci resta che continuare a seguire la storia, per vedere come andrà a finire.
Con grande piacere ritrovo ancora una volta Francesco Zampa, autore della serie di gialli del Maresciallo Maggio, nel ruolo di ospite nel mio blog. Questa volta ci parlerà dell’acclamata serie TV americana “True Detectives”, fornendocene un’analisi accurata.
Chi mi conosce storcerà subito il naso, come a dire: “E te pareva... è fissato co’ ‘sti Americani...”. Ma non posso fare proprio a meno, una volta di più, di elogiare la fiction d’oltremanica dopo aver visto tutta d’un fiato la I Serie di “True Detectives”.
Non che gli americani non abbiano difetti, anzi, come in tutte le cose, si trovano dubbi e perplessità. Però, quando proprio non si parla di pelo nell’uovo, bisogna sempre considerare che si tratta del massimo, e un difetto sfuma quasi nella caratteristica se non nell’opinione personale. Serie A, dove tutti sono forti e anche l’ultimo, appunto, è sempre più del primo della serie B dove, purtroppo, noi militiamo da anni e per scelta più che per incapacità.
Ma andiamo a vedere più da vicino.
Già l’impatto visivo e musicale della sigla dimostra la grande cura e ci avvisa su cosa ci aspetta: il pezzo di apertura di The Handsome Family, Far From Any Road, è memorabile e ci cala subito nell’atmosfera irregolare e un po’ lugubre del profondo sud. Chi ha letto John Grisham si sente a casa. La sequenza onirica mostra molti luoghi comuni e caratteristiche dei protagonisti: volti contratti si alternano a ombre e predicatori, case di legno, immense raffinerie su paludi sconfinate.
E bisogna essere molto politicamente scorretti, anche se non fino in fondo, per mettere in scena due personaggi come i detective Rustin Spencer “Rust” Cohle (Matthew McConaughey) e Martin Eric “Marty” Hart (Woody Harrelson), l’uno il complemento dell’altro: quanto è irregolare e maledetto il primo, tanto è buono, familiare e rassicurante il secondo (ma solo per un po’). Un’altra cosa, questa molto difficile da realizzare da noi, dove non si può dire nulla che non sia più che conforme nella finzione: vietato dire la verità, ma normale urlare menzogne in nome della libertà di parola.
Trovo pressoché impossibile la sperimentazione di generi e personaggi, e molto difficile realizzare produzioni interessanti senza avere la possibilità di toccare, in maniera non simbolica, argomenti scottanti ma comuni come la pedofilia e la corruzione. Mentre in America un tentativo del genere, cioè rappresentare corrotti e corruzioni del Governo e delle massime istituzioni religiose, se riuscito, è osannato da pubblico e critica e considerato solo per quello che è, cioè un prodotto di fiction ispirato alle torpitudini umane, in definitiva un’operazione commerciale, un investimento, un’occasione lavorativa, da noi gli estemporanei, coraggiosi autori, rischiano invece la ghettizzazione e il taglio dei finanziamenti. È vero, in America le Lobbies sono potentissime e non lesinano mezzi per raggiungere lo scopo, ma riescono lo stesso a mettere un Presidente corrotto o fifone senza che nessuno gridi allo scandalo o peggio.
Ed ecco quindi la trama toccare alcuni tra i punti peggiori dell’umanità edulcorata della Louisiana degli ultimi vent’anni: appunto la pedofilia, la corruzione degli uomini di Stato nelle cariche più alte e rappresentative, nonché delitti efferati e impuniti.
Lo so, c’è il finale rassicurante, se non consolatorio: sia Rust che Marty riscattano le loro maledizioni mostrando una motivazione pura e disinteressata alla soluzione del caso anteponendolo alle loro vite stesse, trovando i colpevoli e riazzerando così le loro esistenze in modo da ricominciare ancora, affrancati dai loro pesanti fardelli. Un’ottica puritana e astutamente commerciale, probabilmente, ma che poco toglie quando la storia, e i mostruosi delitti con lei, sono tutti compiuti.
Alcune sequenze sono terrificanti, e altrettanto lo è il triste sprofondare di ciascuno dei due nelle nefaste conseguenze delle loro azioni. Rust è privo di vitalità, ossessionato dalla perdita prematura di moglie e figlia, ma anche Marty, oltre l’apparenza rassicurante della famiglia americana con moglie devota e due belle figlie in una bella casa, in realtà ha già perso tutto anche se non se ne rende subito conto, affondato nei suoi egoismi, e in un modo forse ancor peggiore, perché più colpevole, del traumatizzato compagno.
In questa atmosfera di rapporti umani falsi e falsificati persino tra le istituzioni dove le certezze non dovrebbero essere mai in dubbio, lo spettatore assorbe l’angoscia disperata che trasuda a mano a mano che i personaggi secondari e le vittime sfilano nelle varie puntate. Vittime autentiche, perché innocenti e indifese dalla cattiveria e dall’efferatezza.
Per fortuna che, alla fine, almeno ce la fanno!
Bella idea quella di cambiare i protagonisti a ogni serie (sono già annunciati quelli della prossima: Vince Vaughn e Colin Farrell), sempre alla ricerca di idee e proposte nuove. Se l’autore della serie, Nic Pizzolatto, ha fatto vedere tutta, o molta, della sua bella stoffa, i due stessi protagonisti non si sono dimostrati da meno dopo una carriera in cui hanno saputo interpretare ruoli atipici (ne scelgo uno per uno: Benvenuti a Zombieland e Killer Joe) riproponendosi come co-produttori.
Come sostengo anch’io e come, d’altra parte, dovrebbe dire qualsiasi scrittore indipendente: se non ci crediamo noi che siamo gli autori, chi dovrebbe farlo?
FRANCESCO ZAMPA (1964) è autore indipendente di romanzi gialli. Nelle sue storie ama affrontare argomenti importanti come la corruzione e la sovraesposizione dei mezzi di comunicazione.
Il protagonista delle sue storie è il maresciallo Franco Maggio che, a Viserba di Rimini, si trova a risolvere delitti di rilevanza internazionale affidandosi al suo intuito.
Nell’ultimo libro, “La Scelta”, la trama è intarsiata sullo sfondo autentico della deportazione di migliaia di carabinieri romani da parte dei Nazisti, il 7 ottobre 1943.
Di Carla (del 04/08/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 4713 volte)
Devo ancora vedere l’ultima stagione di questa bellissima serie TV, ma proprio per questo motivo voglio parlarne adesso che non so come finirà. Ricordo che a suo tempo cercai di evitare a tutti i costi di vederla. Mi dicevo che non volevo lasciarmi coinvolgere e allungare ulteriormente la lista dei miei impegni televisivi, ma poi, non so come, ci sono cascata.
Come spesso mi capita in questi casi, non ho mai visto le primissime puntate. Trattandosi di una serie episodica (come tipicamente sono quelle rivolte ai canali generalisti, di cui la CBS fa parte) questa mia mancanza non ha inficiato il godimento del resto della stagione e di quelle successive, una volta chiarito l’antefatto.
“The Good Wife” rientra nelle cosiddette serie drammatiche a carattere giudiziario. La protagonista, interpretata dalla bravissima Julianna Margulies (che ricorderete di certo in E.R. nel ruolo dell’infermiera che faceva coppia col dottor Ross, vale a dire George Clooney), è Alicia Florrick, la moglie del procuratore di stato, Peter Florrick (Chris Noth, già visto come Mr Big in Sex And The City), coinvolto in uno scandalo sessuale che lo fa finire in prigione. Alicia, da buona moglie, nonostante il tradimento, supporta pubblicamente il marito (anche se in privato le cose non vanno altrettanto bene) e si deve sobbarcare la famiglia, mentre lui è in carcere. Per riuscirci, torna a fare l’avvocato.
Come potete immaginare, ogni puntata presenta un caso legale che deve essere risolto.
L’aspetto puramente legale devo dire che è molto divertente. Alicia e i suoi colleghi, anche nelle peggiori situazioni, tirano fuori dal cilindro un colpo di genio che li porta quasi sempre alla vittoria.
Gli spettatori ricevono un’immagine della legge che appare come qualcosa di estremamente creativo, uno strumento che gli avvocati devono sapere armeggiare per far vincere il proprio cliente. Poco importa se sia colpevole o innocente. Infatti, tra i vari casi c’è anche quello di un uxoricida (un personaggio ricorrente nella serie) che rimarrà impunito, ma non per questo appare come un personaggio del tutto negativo.
Accanto all’argomento legale si sviluppa quello politico, che viene incarnato dal bravissimo Alan Cumming nel ruolo di Eli Gold. Eli è lo stratega politico di Peter Florrick, colui cioè che gestisce le sue campagne elettorali e cura la sua immagine anche durante i mandati. Peter, che all’inizio è il procuratore di stato, più avanti nella serie si candiderà alla carica di governatore dell’Illinois e nella sesta stagione anche Alicia si ritroverà a correre per una carica di natura politica.
Non entro nel dettaglio per evitare spoiler a chi non avesse ancora visto questa serie.
Comunque sia, la parte relativa agli intrighi politici non è meno interessante rispetto a quella prettamente legale, mettendo in evidenza come i due ambiti siano spesso collegati (negli Stati Uniti).
Proprio in questo periodo che anche da lontano assisto alla campagna presidenziale che vede come protagonisti Hillary Clinton e Donald Trump, non posso che confrontare gli articoli, i video, i tweet e quant’altro compare sul web con ciò che la finzione propone in “The Good Wife”, dove le elezioni vengono mostrate come un conflitto fatto di diffamazioni, colpi bassi, video anonimi, ricerca del solito scheletro nell’armadio dell’avversario, scontri verbali in cui la forma conta più del contenuto. In tutto ciò gli elettori sono dei numeri in una statistica che sembrano oscillare da una posizione all’altra come conseguenza di queste azioni, proprio come se fossero delle pecore e non degli esseri pensanti in grado di valutare la qualità dei candidati.
Personalmente trovo tutto questo affascinante e proprio la visione di una serie come “The Good Wife” (ma non è l’unica di certo ad affrontare questi argomenti), nel suo piccolo, fornisce un’ulteriore chiave di lettura di ciò che si vede nella realtà. In altre parole, tutto ciò che appare attraverso i media in relazione ai candidati di una campagna elettorale negli Stati Uniti è pura strategia.
Non che il resto del mondo sia diverso, ma ho l’impressione che l’eccessiva spettacolarizzazione in questo ambito, come in qualsiasi altro, sia una prerogativa tipicamente americana.
Agli aspetti controversi sia in ambito legale che politico trattati in questa serie, si aggiungono quelli relativi alla sfera personale. Amicizie che diventano relazioni sessuali (extraconiugali) che poi diventano rivalità, personaggi che usano i sentimenti altrui a scopo personale, figli adolescenti che nascondono gravidanze, avvocatesse che si fingono ottuse per ingannare gli avversati (come il divertentissimo personaggio di Elsbeth Tascioni, interpretato da Carrie Preston) altre che usano i propri figli per impietosire i giudici, avvocati che fanno lo stesso con la propria disabilità (a questo proposito è degno di citazione il perfido personaggio di Louis Canning, interpretato da Michael J. Fox, che arriva addirittura a imbrogliare Alicia dal letto di un ospedale!) sono solo alcuni esempi del materiale umano offerto dalla serie, cui si aggiunge, purtroppo, anche la morte.
Ce n’è, insomma, per tutti i gusti e l’insieme di questi elementi va a creare delle robuste sottotrame che si dipanano lungo tutta la serie, da una stagione all’altra. E diventano sempre più importanti tanto che il caso trattato nel singolo episodio finisce per passare in secondo piano.
Non c’è quindi da stupirsi che una serie del genere tenda a creare dipendenza. Perciò, se non l’avete vista ma intendete farlo, ricordatevi che non avrete pace finché non sarete arrivati all’ultima puntata, se non di tutta la serie, almeno delle singole stagioni.
Di Carla (del 24/08/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 4727 volte)
Nel panorama delle serie investigative, “Bones” ha l’originalità di presentare per la prima volta in TV la figura dell’antropologo forense, vale a dire la dottoressa Temperance Brennan, interpretata da Emily Deschanel.
Sebbene la serie presenti una coppia di protagonisti, con l’agente speciale dell’FBI Seely Booth che sarebbe almeno ufficialmente a capo delle indagini nei singoli casi, di fatto è la Brennan, che lui chiama appunto Bones (ossa) e che considera la sua partner (nonostante lei non appartenga alle forze dell’ordine), a essere coinvolta in prima persona nella loro risoluzione.
Ho scoperto questa serie quando è arrivata su Sky nel 2008, per curiosità seguendo David Boreanaz dalla sua precedente, “Angel” (il vampiro con l’anima di “Buffy l’ammazzavampiri”, che invece non ho mai guardato, di cui rappresenta uno spin-off) e mi ha subito appassionato.
Adoravo il personaggio di Brennan, estremamente intelligente, pragmatica, razionale, che diceva ciò che pensava senza filtri, in pratica la ex-secchiona di successo, ma senza cadere in facili cliché da nerd. La Brennan era brillante sia per il suo talento sia per il fatto che era stato affinato dall’intenso studio e dalla passione quasi ossessiva per quest’ultimo. Devo dire che nel mio piccolo, essendo io stessa tendente al perfezionismo, un po’ mi ci immedesimavo. Queste sue caratteristiche la rendevano imprevedibile, non sapevi cosa avrebbe detto o fatto in ogni puntata, e quasi magica. Le bastava, infatti, un’occhiata alle ossa delle vittime per stabilire sesso, razza, talvolta età e persino la tipologia del lavoro che faceva.
Quello tra lei e l’agente Booth, intuitivo, sentimentale e credente, era quindi un conflitto sempre stimolante che manteneva alto l’interesse, indipendentemente dai singoli casi.
Con l’andare avanti delle stagioni qualcosa è necessariamente cambiato. I due personaggi hanno finito per interagire fino allo scontato epilogo romantico e le differenze fra i due sono state smussate. Come ho detto, era necessario, perché in tante stagioni non si poteva pretendere in mantenere lo stesso schema, che avrebbe finito per diventare ripetitivo e noioso, una volta esaurita la sorpresa iniziale, ma forse è anche uno dei motivi perché storie di questo tipo funzionano meglio in un contesto più breve, come i film e le miniserie.
Di fronte a questo cambiamento gli sceneggiatori hanno fatto del loro meglio per far accrescere l’interesse negli altri personaggi, le cui sotto trame sono molto ben curate, mentre i vari crimini sono sempre rimasti un po’ in secondo piano.
Fanno eccezione alcune storie che sono state spalmate su più puntate, come quella del serial killer cannibale Gorgomon della terza stagione o del cattivissimo hacker Christopher Pelant, che compare addirittura in tre di esse (la settima, l’ottava e la nona), e ovviamente il fatto che ogni stagione tenda a terminare con un cliffhanger, facendo sì che la vicenda venga ripresa all’inizio di quella successiva.
Le restanti puntate sono autoconclusive e, se non fosse per piccoli elementi delle sottotrame, perderne qualcuna non ha quasi mai effetto sulla comprensione generale della serie.
La somma dei pregi e dei difetti di “Bones” ha fatto sì che venisse rinnovata di anno in anno e recentemente la Fox ha annunciato la preparazione di una dodicesima stagione, che sarà anche quella conclusiva. Senza dubbio si tratta quindi di una serie di successo giunta al suo termine fisiologico.
Come molti sanno, il personaggio di Temperance Brennan deve il suo nome alla protagonista della serie di romanzi di Kathy Reichs.
In realtà il legame è abbastanza debole, poiché i due personaggi hanno come elementi comuni, a parte il nome, solo il mestiere di antropologa forense. Nessuna delle puntate è tratta da un romanzo specifico. Anzi, pare che l’idea di base fosse nata dal progetto di un documentario sulla stessa Reichs, che è appunto un’antropologa forense, e quindi la Brennan di “Bones” sarebbe più che altro una trasposizione sul piccolo schermo della stessa autrice. Infatti, a un certo punto della serie la Brennan inizia a scrivere dei romanzi la cui protagonista si chiama Kathy Reichs, mescolando ancora di più realtà e finzione. La Reichs, inoltre, afferma che la serie potrebbe essere più che altro vista come un prequel dei suoi romanzi, visto che la sua Brennan è meno giovane del personaggio interpretato dalla Deschanel.
Comunque lo si guardi, siamo di fronte a un intreccio tra narrativa, TV e vita reale, che rende, se possibile, la serie di “Bones” ancora più originale.
La scienza forense è, invece, illustrata in maniera così rapida che, a mio parere, non offre spunti particolarmente interessanti. La presenza di prove fisiche è funzionale alla scoperta dell’assassino e quest’ultima è facilitata da tecnologie alternative, per non dire fantascientifiche, che hanno lo scopo di intrattenere, spesso attraverso l’elemento comico, più che far apprendere allo spettatore l’aspetto scientifico.
A ciò si aggiungono alcune guest star di tutto riguardo, come Ryan O’Neal nel ruolo del padre dal passato criminale della Brennan o la popstar Cyndi Lauper, che interpreta una sensitiva, entrambi personaggi ricorrenti, e una buona dose di dark humour, che aleggia in tutte le stagioni, alleggerendo le tematiche forti.
In ogni puntata c’è, infatti, almeno un cadavere scarnificato e/o smembrato, ma viene sempre rappresentato in maniera non eccessivamente raccapricciante, evitando di mettere l’accento sull’evidente brutalità dei crimini, anche se la visione ai bambini è tutt’altro che consigliata.
Il tutto è condito, a mio parere, da un eccessivo buonismo (da TV generalista) e una distinzione netta tra ciò che è assolutamente giusto e ciò che è assolutamente sbagliato, non lasciando alcun spazio all’esistenza delle situazioni intermedie, che sono invece la normalità nel mondo reale.
È comunque una serie divertente che si lascia guardare senza costringerti a troppe riflessioni e che, volente o nolente, ti porta a seguirla fino alla fine.
Di Carla (del 06/09/2016 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 6137 volte)
La trasmissione su Fox Italia di questa serie canadese venne anticipata da una grande pubblicità che puntava sul fatto che si trattasse di una prima mondiale. “The Listener” in realtà venne trasmesso in Italia e in altri paesi qualche giorno dopo la sua prima canadese (3 marzo 2009), ma alcuni mesi prima di quella statunitense.
Non so come, visto che in generale non vado matta per le serie che abbiano a che fare con il paranormale, ma mi ritrovai comunque a guardarla dalla prima puntata fino all’ultima nel 2014.
La serie aveva come protagonista un paramedico, Toby Logan (interpretato da Craig Olejnik), dotato di capacità telepatiche. Toby riusciva a leggere il pensiero, che si trattasse di suoni, immagini o parole, e a causa di questo talento si ritrovava coinvolto, suo malgrado, nella risoluzione di casi di omicidio.
La prima stagione lo vedeva interagire con una detective, Charlie Marks (interpretata da Lisa Marcos; la prima a sinistra nell’ultima foto), ma ciò avveniva in maniera quasi fortuita, poiché Toby durante il suo servizio in ambulanza si trovava spesso a intervenire dove era avvenuto un crimine e a leggere la mente delle vittime, prima che morissero, o di altre persone coinvolte. Parallelamente ai singoli casi c’era una sottotrama relativa al passato di Toby e all’origine di questa sua capacità.
Devo dire che la serie non era eccezionale, ma si lasciava guardare con piacere, complice l’ambientazione di Toronto, sicuramente meno inflazionata di altre, e la presenza di un buon cast di attori poco conosciuti. Il fatto di essere una serie canadese la rendeva distintamente diversa da quelle americane nel modo in cui venivano trattati alcuni temi, presentando meno cliché e più elementi originali. L’aspetto drammatico era poi stemperato dalla presenza di un personaggio ironico: Osman Bey (interpretato da Ennis Esmer), detto Oz, vale a dire il collega di Toby. La sottotrama, infine, era intrigante e spingeva alla visione della puntata successiva.
Dopo la prima stagione (vedi il cast nella foto accanto) la serie subì una rivoluzione, poiché vennero sostituiti gli sceneggiatori e il suo stesso creatore, Michael Amo, smise di lavorarci.
Invece di trovarsi lui per caso coinvolto nei crimini, Toby veniva ogni volta chiamato da una sergente della IIB (una speciale unità investigativa), Michelle McClunsky (interpretata da Lauren Lee Smith, che avevo già visto nella stagione nove di “CSI” e successivamente ha avuto un ruolo importante nella miniserie di fantascienza “Ascension”), tanto che a partire dalla terza smise di fare il paramedico e iniziò a lavorare nel team come consulente. Solo in pochi (anche se il loro numero tendeva ad aumentare) sapevano di questa sua capacità e ufficialmente era considerato un esperto delle microespressioni facciali in grado di capire se una persona fosse sincera o meno.
A causa di ciò la sottotrama sparì completamente lasciando spazio a un andamento episodico della serie che diventò quasi di natura procedurale. “The Listener” perse in originalità, ma acquistò in ritmo e azione. L’intenzione era probabilmente quella di attirare un pubblico più ampio e parve funzionare, poiché si andò avanti fino alla sua conclusione programmata con la quinta stagione.
Negli USA la serie non andò particolarmente bene, mentre in Italia è stata addirittura la seconda serie più guardata di sempre di Fox.
Di Carla (del 20/06/2020 @ 09:30:00, in Serie TV, linkato 2848 volte)
Ultimamente mi sto interessando alla produzione europea in ambito di serie TV, così quando lo scorso autunno ho scoperto che su Rai 4 trasmettevano una serie francese di fantascienza addirittura ambientata su Marte, mi ci sono subito fiondata. Ammetto che non avevo grandissime aspettative, poiché era evidente che si trattava di una produzione con un budget contenuto, e, invece, mi sono dovuta ricredere.
“Missions” (il cui titolo può essere pronunciato sia in francese che in inglese) è una serie francese creata da Ami Cohen, Henri Debeurme e Julien Lacombe e prodotta da Empreinte Digitale nel 2017. Finora comprende due stagioni, ma è stata già commissionata una terza, che è in fase di pre-produzione. Ogni stagione è costituita da 10 puntate di circa 20 minuti l’una.
La serie racconta della missione dell’ESA Ulysses 1, la prima con equipaggio umano su Marte. Mentre la nave sta arrivando sul pianeta rosso, l’equipaggio viene informato che una missione della NASA, Zillion 1, in cui è stata usata la propulsione nucleare, è arrivata prima, ma non si hanno più notizie degli astronauti, quindi Ulysses 1 è diventata una missione di soccorso. Nel frattempo sta arrivando una terza missione, Zillion 2.
Un aspetto particolare è che entrambe le missioni sono finanziate da dei privati. Quella dell’ESA da William Meyer (miliardario svizzero), che fa anche parte dell’equipaggio. Quella della NASA, da Ivan Goldstein (miliardario americano) ed è portata avanti dalla sua azienda chiamata, appunto, Zillion.
Non ho potuto fare a meno di vedere in questi due personaggi una sorta di lato “buono” e “cattivo” delle figure pubbliche contemporanee del settore aerospaziale privato. Il personaggio di Meyer, in particolare, con la smania di andare di persona sul pianeta rosso mi ha subito fatto venire in mente Elon Musk.
La serie, inoltre, si apre sulla vicenda del cosmonauta russo Vladamir Komarov, morto durante la missione Soyuz 1 nel 1967. Si tratta di una scelta originale, che permette al pubblico di sapere qualcosa di più di questo compianto eroe spaziale.
Non posso dire troppo sulla trama, che è caratterizzata da continui colpi di scena sviluppati in base alla serialità. In ogni puntata di 20 minuti la trama va avanti apparentemente lenta, per poi accelerare verso la fine e lasciarci con un punto di svolta.
Per fortuna, venivano trasmesse da Rai 4 (poi rese disponibili su Rai Play) tre puntate alla volta!
La storia include un insieme elementi già visti nella fantascienza marziana e non, ma la particolarità sta nel modo in cui sono amalgamati.
Tra gli aspetti originali c’è il personaggio di Komarov, o meglio del qualcosa che sembra lui, che ha un ruolo importante all’interno della trama. E a questo proposito una serie di flashback ci permettono di conoscere di più sul vero Komarov, anche se poi risulta marginale nell’economia della storia. È però interessante e aggiunge un tocco europeo alla narrazione.
Tutta la serie è ricca di flashback, che forniscono informazioni sui personaggi. Nella seconda stagione, in particolare, servono per spiegare cosa è accaduto nei cinque anni passati dopo la fine della prima.
Questo alternarsi dei diversi piani temporali permette di scoprire la storia poco alla volta, fornendo impensati colpi di scena.
Si tratta di una scelta narrativa che amo particolarmente, poiché è in grado di spiazzare il fruitore, mostrandogli certe informazioni solo nel momento in cui queste possono ottenere il massimo effetto.
La prima stagione è costata appena 1,5 milioni di euro ed è stata girata in soli 27 giorni. E, nonostante ciò, il risultato è davvero lodevole. Ma è nella seconda che, a fronte di un aumento di budget fino a 2 milioni (quindi non certo stellare), si osserva l’aprirsi della storia a nuove possibilità, che sono accompagnate da effetti visivi più incisivi e dall’utilizzo di un maggior numero di ambientazioni, che la rendono ancora più realistica.
C’è un elemento fortemente mistico nella storia, sebbene gli si dia un’impronta scientifica o ci si provi. Qui ho trovato somiglianze inquietanti con “Deserto rosso”, anche se più nella forma che nella sostanza. Ci sono menti collegate, un elemento biologico, l’intelligenza artificiale che si ribella, una protagonista che esce di nascosto dalla base e poi si fa male (e poi la salvano), gente che muore all’improvviso in incidenti o in circostanze misteriose, gente che perde la testa e uccide, storie sentimentali tra i protagonisti. Ma c’è anche altro che invece non ha nulla a che vedere con la mia serie marziana, per esempio, dei portali che mi ricordano Stargate e altre supertecnologie di origine sconosciuta (almeno finora).
Nonostante il budget ridotto, la qualità visiva è molto buona. Ci sono delle semplificazioni sia scientifiche sia per quanto riguarda alcuni aspetti tecnici (come le tute, che evidentemente non sono pressurizzate), ma ciò non influenza negativamente il risultato, poiché siamo totalmente presi dalle vicende dei personaggi, che i dettagli hanno ben poca importanza. La regia, la fotografia e il montaggio sono molto ben riusciti, e la musica mai ingombrante sottolinea la storia in maniera efficace. Il tutto è caratterizzato da un certo senso di realtà. Si ha l’impressione di avere a che fare con un futuro reale molto prossimo.
Ho letto sui social network e in articoli su altri blog e magazine delle opinioni negative sui dialoghi, ma non sono d’accordo. Siamo troppo abituati ai prodotti anglosassoni e questo è, invece, un prodotto francese. E lo si vede anche dai dialoghi. Anzi, l’ottimo lavoro di adattamento e doppiaggio riesce a sfumare eventuali eccessi “teatrali” e rende anche questo aspetto adeguato a tutto il resto.
Forse l’auto-doppiaggio di Giorgia Sinicorni tende a spiccare un po’ nell’insieme delle voci, ma è qualcosa di inevitabile, visto che fare la doppiatrice non è il suo lavoro e allo stesso tempo i doppiatori italiani sono talmente bravi che farebbero sfigurare chiunque. In ogni caso, questo piccolo dettaglio tende a sparire nella seconda stagione, un po’ perché c’è stato sicuramente un miglioramento nella performance della Sinicorni e un po’ perché noi spettatori ci siamo abituati alla sua voce, grazie anche al fatto che il personaggio ha un ruolo più ampio nella storia. E, diciamocelo, trattandosi dell’unico personaggio italiano nella serie, ha senso che “suoni” diverso dagli altri.
Comunque, per apprezzare l’interpretazione della Sinicorni, consiglio di vedere il suo showreel, in cui sono riportati due spezzoni di scene tratte da questa serie: una in francese e una in inglese.
Sebbene quella di “Missions” sia una storia in cui l’aspetto che va oltre la scienza ha un ruolo di una certa importanza, mi sono ritrovata a paragonarla alla porzione drama del docudrama “Marte” di National Geographic. La direzione che prende è completamente diversa, perché diversi sono gli scopi, ma come qualità generale, facendo le dovute proporzioni a livello di budget, credo che “Missions” non abbia nulla da invidiare alla serie americana.
Inoltre, credo che assomigli molto (e magari ne è anche stata influenzata) a “Defying Gravity”, serie americana del 2009, cancellata dopo la prima stagione, in cui si mescolano gli stessi elementi (relazioni tra i personaggi, un mistero che va oltre la scienza, l’esplorazione spaziale nel prossimo futuro) e le stesse tecniche (i flashback), ma ovviamente con ben altro budget. Ammetto, anche, che mi fu di ispirazione nel momento in cui ideai “Deserto rosso”. Si tratta in un certo senso della stessa tipologia di fantascienza, che, partendo da elementi spiccatamente hard, li mescola a qualcosa di più soft non ben definito, in grado di stimolare la fantasia dello spettatore.
In conclusione, ho apprezzato molto lo sforzo immaginifico di questa serie, supportato da un’ottima sceneggiatura, con un ritmo incalzante e capace di far nascere di continuo nuove domande. Se avessi avuto a disposizione tutte le due stagioni dall’inizio, le avrei viste nel giro di due o tre giorni, tanta era la curiosità alla fine di ogni episodio.
In ogni caso, tutto questo, insieme a un buon cast e a una componente visiva molto ben curata, a mio parere, fa di “Missions” una scommessa vinta nell’ambito della fantascienza europea.
Di Carla (del 24/11/2023 @ 10:30:00, in Serie TV, linkato 506 volte)
Mi è capitato in passato di parlare della serie TV “Westworld– Dove tutto è concesso” sia su FantascientifiCast che qui sul mio blog (vi invito a visitare i rispettivi link per approfondire). L’episodio del podcast e l’articolo erano però incentrati solo sulla prima stagione, poiché era l’unica ad essere stata realizzata fino a quel momento.
A essa sono seguite ben altre tre stagioni.
Se non avete visto la seconda e la terza stagione, non andate avanti nella lettura, poiché potreste trovare alcuni spoiler. Sulla quarta, invece, mi limito a fare alcune considerazioni, ma che hanno veramente senso solo per chi sa di cosa sto parlando. Insomma, questo articolo è principalmente rivolto a chi ha visto tutta la serie.
La seconda stagione rappresentava una vera e propria continuazione della prima, poiché la storia si svolgeva ancora all’interno del parco. A suo tempo trovai il suo finale entusiasmante, perché mi avrebbe soddisfatto anche se non avessero rinnovato la serie per altre stagioni. Ciò che desideravo era che la storia continuasse al di fuori del parco, nel mondo reale del futuro. Un finale aperto del genere, con la fuga di Dolores (o meglio della sua intelligenza artificiale), era almeno una promessa di questa continuazione.
Uno dei motivi per cui amo i finali aperti nelle storie in cui rimangono molti aspetti irrisolti è che posso sempre immaginare per conto mio ciò che accadrà dopo.
Ma poi è arrivata davvero la terza stagione ed è stata ancora meglio del previsto.
Ciò che ho apprezzato è proprio il modo in cui rappresenta un’estremizzazione della nostra realtà, in cui tutto ciò che facciamo potrebbe essere influenzato dai dati (informazioni, pubblicità, ecc…) che ci vengono mostrati in base alle nostre abitudini di navigazione e a ciò con cui interagiamo quando siamo sulla rete. Se a gestire ciò cui siamo esposti continuamente non fosse un algoritmo il cui scopo finale è solo indurci ad acquistare dei prodotti, ma una super-intelligenza artificiale, la sua capacità di condizionare la nostra visione della realtà per spingerci a diventare ciò che vuole (o che qualcun altro ha deciso) non sembra affatto qualcosa di impossibile.
Devo ammettere che durante la visione della terza stagione ho guardato più volte con sospetto il banner dei cookie che mi appare ogni volta che visito un sito per la prima volta!
Per il mio gusto personale, fino a quel punto il mio apprezzamento di Westworld era andato in crescendo, perciò temevo ciò che avrei trovato nella quarta stagione. Dopo aver finito di vederla, però, il mio primo commento è stato: wow!
Devo dire che mi sono goduta ogni minuto di tutti gli episodi e posso confermare che si tratta della mia serie di fantascienza preferita dopoBattlestar Galactica.
È praticamente impossibile entrare nel dettaglio senza spoilerare, perciò mi limiterò a qualche considerazione sparsa.
Dopo il finale della stagione tre, che in parte pareva prendere spunto dall’idea di base del film “Futureworld” (il sequel del film originale “Westworld” di Crichton), non sapevo cosa attendermi da questa quarta. Di certo non mi aspettavo di trovarmi di fronte a un vero e proprio ribaltamento dei ruoli tra umani e androidi. In realtà, il tema del condizionamento del libero arbitrio da parte di un’intelligenza artificiale (metafora degli algoritmi attuali che già influenzano la nostra vita), che è a me caro (e che potete trovare in alcuni miei libri), avrebbe dovuto mettermi in guardia. L’evoluzione che si ha nella quarta stagione, in fondo, ne sembra la conseguenza quasi naturale, in termini di logica di sviluppo di una storia. Solo che viene portata così oltre rispetto alle premesse iniziali da lasciare lo spettatore a bocca aperta.
A tutto ciò si aggiungono i numerosi elementi inseriti nella trama che mi riportavano alla mente elementi simili da me usati nei miei libri (non posso dirvi di cosa si tratta, perché sarebbe uno spoiler enorme!), sebbene in un contesto completamente diverso. Rivedere le mie fantasie mostrate in maniera simile da una serie di fantascienza di questo livello è stato davvero entusiasmante. È una sorta di convergenza creativa che mi ha fatto sentire in perfetta sintonia con questa opera di finzione. A momenti è stato come se la TV leggesse la mia mente e mi mostrasse la storia che desideravo vedere. Pazzesco.
Tutta questa esaltazione, però, non mi ha impedito di rilevare alcuni aspetti critici.
Prima di tutto, mi sono posta delle domande che non hanno trovato risposta.
Nel mondo è rimasta una sola città? Oppure ce ne sono anche altre e sono tutte fatte allo stesso modo? Da ciò che si vede nella serie, la prima opzione sembra quella corretta, ma nulla viene spiegato, il che è senza dubbio una mancanza.
Se è questa la situazione, mi sembra un po’ eccessiva, anche se sono trascorsi 23 anni.
E, parlando di eccessi, il precipitare degli eventi nell’ultima puntata mi è parso un tantino affrettato.
Onestamente, non amo i contesti apocalittici, perché di questo si tratta, e in particolare mi ha dato fastidio che in un certo senso la storia, che, una volta uscita dal parco, si era aperta a mille possibilità, adesso si sia richiusa tremendamente in se stessa.
Questi aspetti però non scalfiscono la bontà di tutto il resto della serie, che affronta temi attualissimi, che letteralmente ci circondano, e lo fa reinventandoli in un futuro distopico attraverso un intreccio complicatissimo (altro aspetto che mi è particolarmente congeniale). Insomma, ci obbliga a pensare a più livelli, sia per ritrovare in essa la nostra realtà odierna che per mettere insieme la miriade di tasselli che ci vengono mostrati in ordine non cronologico, in modo da riuscire a venirne a capo. La sua visione è una vera e propria sfida.
Inoltre, c’è da considerare che questa storia non è finita.
Il finale della stagione, in realtà, non è un finale. Gli autori l’hanno lasciato volutamente aperto nella speranza di un rinnovo per un’ultima stagione. Purtroppo però è arrivata qualche mese dopo la conferma che la serie è stata cancellata.
È un peccato, perché sarei stata proprio curiosa di vedere cosa ne avrebbero tirato fuori, poiché davvero, dopo i tragici accadimenti dell’ultima puntata, si erano infilati in un bel casino. Certo, avevano la possibilità di portare la storia dove volevano, visto che avevano praticamente fatto tabula rasa di tutto il resto, ma il rischio di uscirne con un epilogo inadeguato era altissimo.
In tutta onestà, se l’avessero rinnovata, non avrei mai voluto trovarmi nei panni degli ideatori e degli sceneggiatori.
Chissà, magari un giorno qualche casa di produzione ne acquisirà i diritti per portare a termine la storia. Oppure mi piacerebbe che ne pubblicassero il finale sotto forma di romanzo, così potrei immaginarlo nella mia testa con maggiore libertà e, nel caso non mi piacesse, far finta che non sia mai esistito.
O forse è meglio lasciarla così, come qualcosa che sarebbe potuto essere perfetto. Grazie all’assenza di un vero finale, niente potrà smentire tale impressione.
Di certo c’è una cosa che spero più di tutte, vale a dire che non ne facciano mai un reboot!
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