Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Carla (del 06/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2776 volte)
Ben strutturato, ma non memorabile. Traduzione scadente
Nel recensire questo libro mi trovo a dover fare una distinzione tra la mia opinione sul libro in sé e quella sull’edizione che ho letto, vale a dire quella italiana cartacea della Newton Compton. Dico subito che nel voto non ho considerato l’edizione, poiché avrebbe rischiato di dimezzarlo.
“Artemis” è un technothriller con una componente scientifica ben curata, come d’altronde mi attendevo da Weir. Se volessi fare un paragone con i libri di altri autori, il primo nome che mi viene in mente è Crichton (scusami, maestro!), per il fatto che tutta la storia è asservita all’intenzione di parlare al lettore di scienza. La somiglianza però finisce qui.
I libri di Crichton, infatti, tendevano a girare intorno a un grande tema scientifico, magari con risvolti morali, senza preoccuparsi di descrivere per forza delle tecnologie reali o plausibili (a volte bastava soltanto che lo sembrassero), ma soprattutto avevano un tono drammatico e spesso di denuncia. I libri di Weir, invece, fanno ridere, letteralmente. I suoi protagonisti non si prendono troppo sul serio e hanno sempre la battuta pronta, talvolta rivolta al lettore, anche in situazioni di vita o di morte (di altri o propria). È evidente che l’autore si diverte a metterli nei guai per poi trovare un modo da nerd per tirarceli fuori. Unendo questi due aspetti, abbiamo a che fare con dei novelli MacGyver che utilizzano le proprie conoscenze e i pochi mezzi a disposizione per risolvere situazioni disperate. In questo senso “Artemis” assomiglia molto a “The Martian”.
Ci sono, però, delle grosse differenze. “Artemis” per certi versi è scritto meglio, nel senso che ha una struttura meglio studiata e caratterizzata da un ritmo della narrazione ben cadenzato che funziona alla perfezione. “The Martian”, invece, essendo nato da episodi pubblicati sul blog dell’autore, presenta gli effetti di questa serialità indisciplinata che a volte stranisce il lettore. Però proprio questo suo non essere strutturato nel modo “giusto” lo rende imprevedibile e di conseguenza più godibile.
In “Artemis”, al contrario, per quanto ci troviamo di fronte a colpi di scena imprevedibili, questi lo sono solo nella sostanza (cioè non sappiamo cosa succederà), ma non nella tempistica, poiché sono talmente inseriti nel punto giusto della storia che in qualche modo li vediamo arrivare (cioè sappiamo che stanno per accadere).
A ciò si aggiunge qualche cliché a destra e a manca e un’antieroina che alla fine si trasforma in eroina travolgendo il lettore con una scontata ondata di buonismo, la cui conseguenza è una certa dose di delusione.
Al di là di tutto questo a rendere sostanzialmente “Artemis” più debole di “The Martian” è lo spessore della trama. Nel confronto tra la storia di una giovane criminale che finisce nel mirino di criminali peggiori di lei nella prima città sulla Luna e quella di un astronauta lasciato per errore su Marte (un pianeta deserto e letale), la prima ne esce con le ossa rotte.
Nonostante ciò, “Artemis” è una lettura gradevole e divertente, con una protagonista simpatica e con tanti spunti scientifici stuzzicanti. È fatto in modo tale da piacere a più persone possibili, ma di conseguenza non per essere amato alla follia.
Discorso a parte è quello dell’edizione italiana. A parte frasi qua e là poco convincenti e qualche concetto ripetuto nella stessa frase, probabile frutto di un errore durante l’editing della traduzione (che evidentemente non è poi stata riletta da nessuno), la cosa che mi ha dato in assoluto più sui nervi è ritrovarmi per almeno una decina di volte al posto della parola corretta “silicio” (in inglese “silicon”) il falso amico “silicone” (in inglese, “silicone” con la “e”). È un errore clamoroso e imbarazzante per un libro di fantascienza pubblicato nel 2017 da un grosso editore, che mette in evidenza come lo stesso editore (la Newton Compton) abbia come minimo dato il lavoro alla persona sbagliata (non ce l’ho con la traduttrice in sé, che sicuramente è stata costretta a fare un lavoro veloce e mal pagato in un ambito che non era il suo) e non l’abbia evidentemente affiancata con un editor che avesse una minima conoscenza scientifica. Ma bastava anche solo un pizzico di buon senso.
Io posso anche capire quando un traduttore cade in un falso amico (legge una “e” che non c’è), se si tratta di un caso isolato e in cui manca il contesto necessario per comprendere esattamente il significato. Il problema qui è che gran parte della storia di questo libro ruota intorno all’industria del vetro, inoltre il termine viene utilizzato almeno una decina di volte e in ognuna di esse non manca affatto il contesto. Si dice, per esempio, che ce n’è in grande quantità sulla Luna. Vi pare normale che sulla Luna, cioè un’enorme roccia nello spazio, si trovi normalmente una grande quantità di un polimero sintetico? Che ci fa lì? Ce l’hanno messo gli alieni? In un punto, poi, lo si definisce un elemento (vi sfido a trovarlo nella tavola periodica). Infine si dice che sia la base della produzione del vetro.
Ora, magari non tutti sanno che il silicio è l’elemento chimico numero 14 della tavola periodica e magari non sanno o non si ricordano che è da esso che si produce il vetro, ma è possibile che nessuna delle persone che hanno lavorato alla traduzione abbia mai sentito parlare del silicone? Non lo credo possibile. È più probabile che questo errore sia dovuto a trascuratezza. Erano convinti che “silicon” volesse dire “silicone” e, nonostante qualcosa evidentemente non tornasse (il buon senso deve aver tentato di far sentire la propria voce), sono andati dritti per la loro strada, perché, a quanto pare, controllare un termine sul dizionario era troppo faticoso, perché in fondo era “solo” un prodotto editoriale di massa (grave errore, visto che parliamo di fantascienza), perché avevano troppo lavoro da fare e forse perché a loro non importava più di tanto che tutto fosse corretto.
Ho saputo che l’errore è poi stato corretto nell’edizione digitale, ma ciò non riduce minimamente la sua gravità, considerando che tra l’altro quella cartacea costa molto di più. E lì ci rimarrà finché non finiranno tutte le copie già stampate (speriamo che provvedano a eliminarlo nelle ristampe).
Alla luce di ciò mi chiedo quante altre frasi siano state interpretate in maniera errata durante la traduzione e successiva correzione. In altre parole: che libro ho letto?
Infine mi chiedo: questo libro nell’edizione originale ha davvero un linguaggio tanto più pulito rispetto a “The Martian” (che ho letto in versione originale e che è tempestato da innumerevoli varianti e usi diversi della parola “fuck” a partire proprio dalla frase di apertura)?
A questo proposito qualche dubbio mi rimane.
Di Carla (del 16/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1739 volte)
Un interessante presente e futuro alternativo
Nel 1959, quando questo libro venne pubblicato per la prima volta, non eravamo ancora andati sulla Luna (ci saremmo andati ben dieci anni dopo) e la conquista dello spazio era vista come una normale estensione della cosiddetta guerra fredda. Questo scenario tutt’altro che ottimistico fa da sfondo alla storia di una famiglia di astronauti che si dipana per duecento anni. Il pessimismo di Wyndham, che avevo già visto nel suo romanzo post-apocalittico “Il giorno dei trifidi”, contrasta con l’ottimismo di molti altri autori della fantascienza ormai definita classica che immaginavano gli essere umani viaggiare nello spazio a distanza di pochi decenni e che, se fossero ancora vivi, sarebbero delusi di sapere che non siamo ancora neppure arrivati di persona su Marte. Al contrario, in “Uomini e stelle” la conquista dello spazio procede lentamente, molto più che nella realtà, ed è legata a doppio filo a eventi di natura bellica. Con salti di cinquant’anni, l’autore ci racconta quattro avventure spaziali di uomini appartenenti alla famiglia Troon (inglesi, come l’autore), cui si aggiunge quella in aviazione del nonno del primo di questi astronauti. Attraverso le loro storie ci viene illustrato un futuro grigio che per noi è, fortunatamente, alternativo, in cui l’astronautica è lo strumento di una guerra distruttiva che porta a stravolgere gli equilibri politici del nostro pianeta. Ogni storia reca con sé un atmosfera cupa e si risolve in un finale deprimente, fatta eccezione per l’ultima, che termina con una nota positiva. L’esercizio speculativo di Wyndham sembra quasi un monito agli uomini del suo tempo. È come se l’autore avesse sublimato i suoi peggiori timori all’interno di questo romanzo nel tentativo di trovare, alla fine del tunnel, una luce di speranza. Per riuscire ad apprezzarlo oggi, soprattutto alla luce delle attuali conoscenze scientifiche che evidenziano l’ingenuità della scienza narrata nel romanzo, bisogna provare a mettersi nei panni dell’autore, che a poco più di un decennio dall’inizio della guerra fredda teme per il futuro del mondo e prova a immaginare cosa succederebbe, se i suoi peggiori timori si realizzassero. Leggere questo romanzo in un certo senso mi ha fatto sentire bene, poiché i presupposti su cui si basa non esistono più e il suo sviluppo drammatico al giorno d’oggi sembra addirittura assurdo, ma allo stesso tempo mi ha indotto a riflettere su come la percezione del mondo e del futuro possa cambiare drasticamente col passare dei decenni.
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Di Carla (del 24/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2253 volte)
Storia complessa e godibile con un inizio un po’ lento
Questa novella è il primo libro di una serie di thriller che ha come protagonista Frank Bowen. Per quanto si tratti di uno scritto breve che viene offerto gratuitamente per invogliare alla lettura dei successivi, è del tutto autoconclusivo e funziona bene anche come libro singolo. Inoltre il testo è molto ben curato. Non ho notato refusi né errori di altro tipo (se ce ne sono, devono essere proprio pochi).
La storia si svolge negli anni 90 nel periodo precedente alla restituzione di Hong Kong alla Cina, mentre l’attenzione dei media è concentrata sulla guerra in Iraq. L’ambientazione internazionale abbastanza varia e ben descritta e i dettagli degli intrighi e delle procedure che coinvolgono le varie agenzie di intelligence sono segno di un notevole sforzo di ricerca che quasi stupisce, trattandosi di un testo così breve.
La trama non è eccessivamente originale e ci sono alcuni aspetti abbastanza prevedibili, tra cui il finale, ma è dotata di alcuni colpi di scena inattesi, che mantengono vivo l’interesse, e delle scene d’azione ben descritte.
Alcune parti sono forse un po’ lente. L’inizio in particolare è sotto tono e non ti fa venire la voglia di andare avanti. Se non fosse stato un libro così corto, probabilmente mi sarei subito fermata. Sono però contenta di non averlo fatto.
Infine ammetto di aver avuto qualche difficoltà nel ricordarmi i vari personaggi, forse perché sono tanti e vengono tratteggiati in maniera molto rapida. Secondo me, in questo libro c’era materiale per scrivere qualcosa di molto più lungo che avrebbe permesso di sviluppare meglio i personaggi secondari, rendendoli più interessanti e memorabili. Ciò avrebbe giovato alla storia nel suo complesso.
È stata comunque una buona lettura che mi sento di consigliare.
Di Carla (del 30/03/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2409 volte)
Anche in Islanda la gente uccide
A metà strada tra il crime thriller e il giallo, questo romanzo di Michael Ridpath è il primo della sua serie ambientata in Islanda e che vede come protagonista il detective Magnus Jonson (o, meglio, Ragnarsson).
Minacciato di morte dal capo di una gang contro cui deve testimoniare, Magnus, un detective della Omicidi di Boston, viene inviato in Islanda, paese di cui è originario, per collaborare per un breve periodo con la polizia locale e nel contempo stare al sicuro fino al processo. Viene così coinvolto nelle indagini sull’omicidio di un professore universitario che pare aver fatto un’importante scoperta relativa a una saga islandese perduta che avrebbe ispirato Tolkien nella stesura de “Il signore degli anelli”.
In una Islanda in cui la leggenda e la realtà, ben evocata dalla splendida prosa dell’autore, si confondono, ci viene raccontata una storia fatta di indagini, interrogatori e deduzioni, che occupano gran parte del libro, rendendolo perlopiù un giallo. A ciò si aggiunge la vicenda personale di Magnus, che rimane però abbastanza marginale.
Devo dire che individuare l’assassino non è stato eccessivamente difficile. Come al solito in questi libri, più l’interesse si concentra su un personaggio, più diventa chiaro che non è l’assassino, per cui andando per esclusione si arriva alla soluzione prima del protagonista.
A dire la verità mentre leggevo questo libro poco mi importava di scoprire chi avesse ucciso il professore. Ero troppo concentrata nell’ammirare l’Islanda evocata dall’autore, tra vulcani, cascate, laghi e fattorie, e nell’apprezzare la sua capacità di inserire in maniera credibile “Il signore degli anelli” in quei contesti. Credo che l’idea di partenza di voler immaginare un legame tra questo famoso libro e una fantomatica saga perduta sia di per sé geniale e valga la lettura del romanzo.
Ho apprezzato poi tantissimo il lavoro di ricerca dell’autore. Il fatto stesso che non sia islandese (è britannico) l’ha spinto a chiarire tanti piccoli aspetti che un autore del posto avrebbe dato per scontati e ciò ha reso il libro ancora più interessante per chi come me è incuriosito dalla cosiddetta terra del fuoco e del ghiaccio.
Nel complesso ho trovato questo romanzo una lettura coinvolgente e ricca di informazioni, una di quelle che, oltre a divertirti, ti insegnano qualcosa.
Di Carla (del 05/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2434 volte)
Abuso e follia
“Scomparsi” vuole essere un romanzo di genere, nello specifico un thriller psicologico, ma allo stesso tempo affronta il tema dell’abuso sulle donne, che lo incasellerebbe all’interno della cosiddetta narrativa non di genere o letteraria. Il risultato di questa unione non è del tutto felice. Il lettore non sa esattamente cosa attendersi e per certi versi vede deluse le proprie aspettative, e per altri rimane piacevolmente sorpreso. Il rischio però è quello di perderlo ben prima della fine del libro.
Ammetto che all’inizio della lettura di questo libro sono andata molto veloce. Ciò avviene quando trovo la storia lenta e me ne voglio liberare. Per circa metà delle pagine in pratica non succede nulla. La protagonista riversa addosso al lettore il proprio delirio, in prima persona al presente. Visto il contesto (due persone sono scomparse), il suo comportamento non ha il minimo senso. Ogni mio tentativo di sospendere la mia incredulità viene messo a dura prova, pagina dopo pagina.
Ora, in un libro di narrativa non di genere può capitare che non accada nulla, anche in tutto il libro, ma non in un thriller. Da qui deriva il mio disorientamento.
Il fatto che la quarta di copertina anticipi il primo flebile colpo di scena, che avviene a circa un terzo del libro, di certo non aiuta.
Quando finalmente, nella seconda parte, le cose iniziano a muoversi, la lettura si fa più interessante e saltano fuori alcune idee e cambi di direzione inattesi. Grazie a questi ho deciso di dare comunque quattro stelle. Restano però una serie di problemi.
Oltre l’inizio lentissimo e improbabile, ho trovato insopportabile (oltre che sciatto) l’uso del punto di vista in prima persona per tre personaggi diversi. Crea inutilmente confusione. E poi c’è il finale che, invece di raggiungere il culmine, a un certo punto si sgonfia. Neppure l’ultimo elemento che dovrebbe fungere da colpo di scena definitivo riesce a risollevarlo, poiché si tratta di una decisione
difficilmente realizzabile da parte di uno dei personaggi.
In poche parole, “Scomparsi” ha il pregio di raccontare una storia potenzialmente in grado di stupire e coinvolgere dal punto di vista emotivo, ma non riesce del tutto a farlo per via del ritmo molto lento e dell’inverosimiglianza che caratterizzano buona parte degli eventi narrati.
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Di Carla (del 12/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1902 volte)
Danzando nel vuoto
La trama di questo libro di certo non manca di originalità, visto che tenta di narrare di danza, cosa già di per sé difficile, ma soprattutto di farlo in un contesto fantascientifico. Il romanzo racconta la storia di Shara, una ballerina di talento che non potrà mai diventare famosa per via delle sue peculiarità fisiche (non ha un corpo minuto e slanciato) e che quindi si inventa un nuovo tipo di danza in assenza di gravità: una danza stellare.
E per certi versi il tentativo riesce anche abbastanza bene. Nelle scene in cui la voce narrante, il cameraman (ed ex-ballerino) Charlie, descrive le coreografie di Shara, per esempio, si ha quasi l’impressione di vederla danzare attraverso le riprese da lui filmate. La prosa dell’autore (anzi, degli autori) è qui evocativa e coinvolgente. Lo stesso fatto di prendere in mano un libro di fantascienza e ritrovarsi a leggere di danza è strano, ma in senso buono. Finché l’aspetto fantascientifico rimane in secondo piano, anzi, la lettura è piacevole e rimane viva la curiosità di sapere come andrà a finire.
I problemi nascono quando la fantascienza si rifà sotto e manda in frantumi tutta la poesia.
Purtroppo il romanzo risente non poco dell’essere scritto oltre quaranta anni fa. Non è solo un problema di anacronismi tecnologici, che come sempre sono inevitabili in libri che cercano di raccontare il futuro. A essi si aggiungono, infatti, numerose imprecisioni scientifiche. Alcune sono probabilmente dovute al fatto che a quei tempi si avevano poche conoscenze sugli effetti sul corpo umano dell’esposizione alla microgravità per lunghi periodi, ma per altre non ci si può appellare a un tale tipo di scusa, perché riguardano concetti abbastanza semplici di fisica. Non so se questi ultimi errori siano dovuti a licenze artistiche da parte degli autori o se siano frutto di una scarsa ricerca. Il problema è che su alcune di queste imprecisioni si basano dei punti di svolta essenziali della trama, che di conseguenza finisce per perdere di credibilità.
Si tratta comunque di una lettura piacevole che nel complesso ho deciso di giudicare positivamente proprio in virtù della sua originalità. Stardance (copertina rigida o flessibile) su Amazon.it.
Di Carla (del 21/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2178 volte)
Un’Islanda umida, sporca e cattiva
L’agente Erlendur della polizia di Reykjavík sta investigando sull’omicidio di un camionista. Sembra un banale caso di tentativo di rapina andato male, ma le indagini lo portano lontano, nel passato della vittima.
L’immagine che l’autore dà dell’Islanda è inquietante e cupa. In un autunno buio e piovoso Erlendur e i suoi colleghi raccolgono prove, interrogano e scavano, talvolta letteralmente, fino a far emergere una storia di stupri, suicidi e malattie mortali.
La stessa cupezza è presente anche nella sottotrama che coinvolge la figlia di Erlendur, Eva Lind, e quella di una ragazza che inspiegabilmente sparisce subito dopo il matrimonio. Qui abbiamo a che fare con droga e abusi.
Immerso in questa ambientazione tutt’altro che allegra, il lettore viene rapito dalla storia e cerca di seguire i ragionamenti del protagonista nel tentare di cavarne piede con un caso estremamente intricato, di quelli che nella realtà, se mai venissero risolti, impiegherebbero mesi se non anni di indagini. Qui l’autore è bravo a centellinare le informazioni e, quando il lettore crede di avere capito qualcosa, a distrarlo con un colpo di scena. E, nonostante la grande quantità di dettagli e i tanti nomi non semplicissimi da ricordare, si riesce comunque a seguire agevolmente la storia fino alla sua conclusione.
Ecco, se devo trovare qualcosa di negativo in questo libro è proprio il finale, sia quello del caso che il breve epilogo. Il primo è forse un po’ troppo drammatico (non spiego perché, per evitare lo spoiler). Il secondo, nel modo in cui viene mostrato, è un po’ troppo affrettato. Sembra quasi di leggere le frasi scritte alla fine di un film in cui si racconta cosa è accaduto successivamente ai personaggi, seguite dalla classica brevissima scena dopo i titoli di coda.
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Di Carla (del 25/04/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2015 volte)
Il viaggio del lettore
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima questo nuovo libro di marketing per autori indipendenti di David Gaughran (ho ricevuto una cosiddetta ARC, una copia fornita in anticipo ad alcuni lettori), ho pensato di cogliere l’occasione per scriverne una recensione un po’ diversa dal solito, che, oltre a parlare del libro, potesse includere alcune mie riflessioni su come il self-publishing si è evoluto nel mercato anglofono e come tale evoluzione, per la sua stessa natura, non può al momento interessare quello italiano.
Prima di tutto, anche questo libro conferma ciò che penso dell’autore. A differenza di altri che pubblicano libri sul self-publishing, Gaughran riduce al minimo gli aspetti autoreferenziali, portando anche esempi concreti di altri autori e cercando di prendere in considerazione le problematiche di un autore qualsiasi. Ovviamente si basa sulla propria esperienza, ma non necessariamente come autore. Infatti, più avanti nel libro scopriamo che lavora come consulente per un altro autore (con caratteristiche completamente diverse dalle sue, poiché scrive fantascienza e pubblica in esclusiva su Amazon), inoltre è costantemente interessato a ricevere feedback da altri, poiché avere sempre del contenuto interessante da proporre nella newsletter fa parte della sua strategia.
Un’altra sua caratteristica è che i suoi libri non sono un elenco schematico di fatti più o meno noti intervallati da tentativi di motivare gli altri autori, in cui abbondano elenchi, schemi e figure che ne aumentano la lunghezza, e ripetizioni sia nello stesso libro che in altri simili. I suoi libri sono solo testuali e sono scritti in una prosa discorsiva che li rende davvero “avvincenti”, senza dare l’impressione che ti stia prendendo per i fondelli. Riesce a sviluppare gli argomenti in un modo che non sembra affatto schematico (ma ovviamente dietro c’è un outlining ben preciso), come se ti stesse facendo un discorso a braccio. È sintetico, arriva dritto al punto e dice chiaramente come stanno le cose (anche quando si tratta di cose non piacevoli). Per questo motivo i suoi libri sono corti, ma non certo perché ci siano poche informazioni.
Per via di questa sua peculiarità nello scrivere, forse il modo migliore per fruire di questo suo libro è prendere nota dei passaggi interessanti durante la lettura o magari mettere un segnalibro sul Kindle per poi tornarci in seguito. Così il lettore si crea il suo schema personale che elenca solo quegli aspetti che gli sono utili, invece di doversi adattare allo schema e agli elenchi puntati di altri.
Ma veniamo al contenuto. Partiamo proprio dal titolo del libro: da sconosciuti a superfan. Il libro parla proprio di questo: in che modo uno sconosciuto arriva a un libro, decide di comprarlo, lo legge (fino alla fine, cosa tutt’altro che scontata) e magari ne compra un altro e/o decide di iscriversi a una mailing list e/o parla agli altri del libro, in pratica diventa un superfan. Il cuore del libro non è spiegare come fare in modo che ciò accada, ma proprio spiegare come accade, vale a dire quale è il viaggio del lettore e in quale parte del viaggio dei nostri potenziali lettori c’è un problema tale da interromperlo. Il problema, secondo Gaughran, non è la discoverability, poiché chiunque può “comprare traffico” (indirizzare della pubblicità) verso la pagina del prodotto di un libro (si concentra soprattutto su Amazon), bensì inviarci il traffico giusto, cioè scegliere il target giusto, fargli trovare la giusta accoglienza, il libro giusto che abbia voglia non solo di acquistare, ma anche di iniziare a leggere, finire di leggere (il 40% dei lettori abbandona un libro iniziato) e indurlo a fare delle cose dopo la lettura.
In realtà, se ci pensiamo bene, dice tutta una serie di cose che già sappiamo, ma lo fa in una maniera tale da farcele guardare da una nuova prospettiva e dare a tutte queste un senso logico.
Dopo aver descritto il viaggio del lettore, fa un analisi dei sintomi che permettono a noi autori di capire in quali fasi di questo viaggio stiamo sbagliando.
Stiamo scegliendo un target sbagliato per la pubblicità? Ci sono dei problemi nella descrizione, nella copertina, nel prezzo? C’è qualche problema dentro il libro? O nelle sezioni poste all’inizio o alla fine?
Infine cerca di spiegarci come risolvere questi problemi. Questa ovviamente è la parte più corta, poiché lui è costretto a parlare in generale e, invece, ogni libro è un caso a sé, ma riesce comunque a fornire dei consigli utili.
Il più importante è quello di muoversi al contrario nel sistemare i problemi che possono bloccare il viaggio del lettore: cioè partire dal migliorare il libro, poi spostarsi alla pagina del prodotto e infine sistemare le pubblicità che usiamo per mandare potenziali lettori verso il libro.
La questione di base è che dà per scontato che siamo in grado e disposti a spendere di continuo delle cifre sostanziose in pubblicità, poiché in caso contrario non arriveremo mai a nulla. Questa è anche la triste verità dell’attuale situazione. Possiamo scordarci i casi eclatanti come John Locke (ve lo ricordate?) o più recentemente Andy Weir (che adesso è pubblicato da un grosso editore), che sono riusciti a vendere tantissimo solo scrivendo tanti libri a 99 cent (nel primo caso) o sfruttando i contatti creati sul proprio blog (nel secondo caso). Questi due, e altri simili, hanno raggiunto subito il successo, perché sono stati tra i primi a fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Sono stati pionieri in un nuovo mercato e si sono trovati così nelle condizioni di sfruttare al massimo, e quasi del tutto casualmente, le opportunità offerte dall’ algoritmo di Amazon,che suggerisce nuovi libri da acquistare ai suoi clienti. Adesso per arrivare in alto bisogna spendere tanto e continuare a farlo. Se lo fai male, vai in perdita. Se ti fermi, le vendite crollano.
Mi rendo perfettamente conto che Gaughran ha ragione, ma anche che questa nella maggior parte dei nostri casi non è una via percorribile (poiché per esempio qui in Italia come privati non possiamo dedurre quelle spese né possiamo pensare di aprire una casa editrice solo per i nostri libri, quindi anche ottimizzando al meglio le pubblicità è già un’utopia andare in pari; per non parlare del fatto che magari queste spese non ce le possiamo proprio permettere) o semplicemente non esistono i mezzi per seguirla (nel mercato italiano l’unico strumento pubblicitario utile in questo senso è Facebook, che però è troppo generico e poco efficiente nel profilare i lettori). Quindi ciò che è riportato nel libro è utile quasi esclusivamente per i mercati anglosassoni.
Nello specifico Gaughran fa molto affidamento sull’uso alle pubblicità di Bookbub (da non confondere con i featured deals), che danno dei risultati molto migliori rispetto alle pubblicità di Facebook e a quelle di Amazon.
Queste ultime sono disponibili solo sul mercato USA (ovviamente solo su Amazon), e sono anche le più scadenti in quanto a risultati. E infatti ne accenna appena.
Quelle su Facebook sono le uniche applicabili a qualsiasi mercato, incluso quello italiano, ed è un peccato che non vengano approfondite in questo libro. Ma il punto è che l’autore non lo fa proprio perché le considera poco efficaci. Le pubblicità di Bookbub invece possono essere usate per raggiungere qualsiasi lettore in USA, UK, Canada, Australia e anche in India. Inoltre si possono creare manualmente dei link a qualsiasi retailer o sito in generale, scegliendo la combinazione paese-link che si preferisce.
A proposito dei suggerimenti che dà, ci sono due aspetti che ho trovato interessanti.
Il primo riguarda i libri non presenti in Kindle Unlimited (KU). Secondo Gaughran, gli autori di questi libri non devono fissarsi con Amazon, poiché non hanno nessuna possibilità di scalare le classifiche. Ciò che conta è che alla fine della fiera, sommando tutte le sorgenti di guadagno, arrivino a una cifra totale interessante. A questo scopo possono utilizzare le pubblicità di Bookbub indirizzandole a mercati più piccoli, in cui c’è meno concorrenza e soprattutto ci sono poche offerte scontate (a differenza di quanto accade su Amazon), come, per esempio, Kobo o Apple in Australia.
Il secondo riguarda Amazon e i libri in KU (vi ricordo che per farne parte bisogna pubblicare in esclusiva su Amazon), che di fatto guadagnano bene non direttamente tramite la pubblicità, ma attraverso l’ondata di pagine lette che appaiono dopo circa una settimana. In pratica, secondo lui, chi è su KU deve essere molto aggressivo con la pubblicità (spendere ancora più soldi), ma farlo per soli cinque giorni e poi raccogliere i frutti per il resto del mese. Quindi riprendere da capo il mese successivo, senza mai fermarsi.
A questo proposito c’è una mezza contraddizione quando dice che questo sistema si può applicare in parte anche con i libri non su KU, perché tanto guadagneranno sempre di più da Amazon. Solo che questi ultimi non hanno le pagine lette, quindi c’è il forte rischio di andare in perdita.
Di fatto l’argomento non viene approfondito e per i non-KU resta solo: il consiglio di fare pubblicità sugli altri store e quello di usare la mailing list, inviando spesso materiale utile agli iscritti. Questo è ciò che fa lui, ma diventa un po’ difficile se pubblichi narrativa. Che devo scrivere ai lettori? Quando dovrei trovare il tempo per farlo? Ma, soprattutto, siamo sicuri che a loro freghi qualcosa?
Inoltre, se un lettore è già nella tua mailing list, vuol dire che ha portato a termine il suo viaggio, quindi in realtà questo consiglio non è una soluzione al problema di partenza.
Insomma, l’idea che mi sono fatta è questa.
Se hai i libri su KU, spendi un sacco sulla pubblicità e usa i suoi suggerimenti per migliorare il viaggio del lettore.
Se non hai i libri su KU, è un casino, a meno che non scrivi non-fiction per un pubblico di lettori in cerca di informazioni, come fa Gaughran. In realtà è autore anche di diversi libri narrativa, ma il fatto che si sia rimesso a pubblicare non-fiction e che adesso faccia il consulente per un altro autore mette in evidenza come sia difficile avere risultati sufficienti esclusivamente con la narrativa, se allo stesso tempo non si propone un certo tipo di prodotto (una serie in determinati generi) e non si è su KU.
In ogni caso il mio giudizio è molto positivo (da qui le cinque stelle), perché comunque Gaughran è onesto, non promette formule magiche e dice chiaramente che c’è tanto lavoro da fare e che non è affatto così facile farlo. Inoltre il libro parla effettivamente di ciò che è promesso nel titolo, né più né meno. E infine è ben fatto, sotto ogni punto di vista, e scritto molto bene. La sua utilità per migliorare le vendite di un libro è limitata all’autore che pubblica sul mercato anglosassone (e preferibilmente in esclusiva su Amazon), però è sicuramente uno strumento molto interessante per comprendere le modalità con cui un lettore sconosciuto diventa un fan e individuare i punti deboli presenti nei nostri prodotti editoriali che mettono a rischio il suo viaggio.
Purtroppo la discoverability resta per noi italiani ancora il problema più grosso, poiché comprare traffico non è così semplice, ma dalla nostra abbiamo il fatto che il mercato dell’editoria digitale in Italia è ancora abbastanza piccolo da permetterci di usare vie alternative per far scoprire il nostro libro. È più facile uscire dall’invisibilità. Un piccolo mercato, però, significa anche che il ritorno dal punto di vista economico tende a essere altrettanto limitato.
Allo stesso tempo c’è da considerare che il fenomeno di KU anche in Italia ha completamente cannibalizzato le classifiche e gli algoritmi di Amazon, escludendone di conseguenza i titoli che non sono venduti solo su questo store. Questi non hanno quasi più alcuna possibilità di raggiungere i vertici delle classifiche di popolarità (che sono più importanti di quelle dei libri più venduti) dei generi più popolari e affollati, né di beneficiare, se non per brevissimi periodi, dell’algoritmo che suggerisce i libri ai lettori e che, negli anni passati, ha determinato numerosi casi clamorosi di successo di cui gli stessi autori non erano in grado di individuare le cause.
Di Carla (del 04/05/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 1807 volte)
Storia affrettata
Ripensando ai punti essenziali della trama, mi rendo conto che c’è della potenzialità, eppure non posso proprio dire che il libro mi abbia entusiasmato.
La trama è infatti molto lineare. I primi capitoli servono unicamente a presentare il protagonista, Ross Moran, ma niente di importante accade finché non viene spedito su una stazione spaziale e lì gli viene proposto un lavoro su un’altra stazione spaziale chiamata Borea. Tra tecnologie avanzate che si scontrano con altre a dir poco antiquate (i personaggi viaggiano nell’orbita terrestre come se niente fosse, ma usano la macchina da scrivere!), si dipana un’avventura in cui gli eventi vengono narrati in maniera molto semplicistica. Il modo in cui viene presentata la tecnologia è superficiale e vengono usate delle spiegazioni pseudo-scientifiche molto deboli. Non pare essere solo una questione di stile, poiché l’autore diventa di colpo molto più preciso nel parlare di meteorologia (o perlomeno dà questa sensazione a un profano).
Gli eventi si susseguono in fretta, in maniera che definirei improbabile. Gli stessi dialoghi, a tratti, sono poco convincenti. Il tutto è infarcito di cliché, come i militari supercattivi che non sentono ragioni, in particolare se si tratta di donne al comando.
Non posso neanche dire che il libro non mi sia piaciuto affatto. Ho trovato il protagonista simpatico. È stato bello immergersi nella sua mente e i suoi monologhi interiori sono coinvolgenti. Ci sono inoltre delle scene d’azione niente male. Ma la sensazione generale che ho provato è stata quella di eccessiva semplicità, come se fosse la prima versione di una storia che non è ancora stata del tutto sviluppata. Peccato.
Di Carla (del 18/05/2018 @ 09:30:00, in Lettura, linkato 2059 volte)
Inusuale ma piacevole
Ciò che mi piace di Matheson è che ogni volta nei suoi libri riesce a tirare fuori qualcosa di originale che trascende i generi, ma allo stesso tempo ognuno di essi ha in comune con gli altri una serie di elementi legati allo stile, alle caratteristiche dei protagonisti e alla totale imprevedibilità delle storie, che rifuggono qualsiasi cliché.
“Altri regni” è una favola che mescola elementi del fantastico, romantici e storici, che non si sviluppa né finisce come ci si aspetterebbe.
Tra gli elementi che mi hanno fatto apprezzare questo romanzo c’è il tono colloquiale e spesso ironico con cui il giovane protagonista narratore si rivolge al lettore. Si crea tra i due una sorta di complicità alimentata dalla curiosità di leggere quale altra assurdità si sarà inventato nella pagina successiva.
A ciò si aggiunge la ricostruzione storica, sebbene limitata dal punto di vista del protagonista, che riesce a portarci nelle trincee della Prima Guerra Mondiale e poi in un paesino dell’Inghilterra.
E poi c’è elemento fantastico (in questo caso si parla di fate e streghe) che viene mescolato alla realtà.
Il tutto viene messo insieme con una narrazione sotto forma di resoconto, che avevo già visto in “Appuntamento nel tempo”. Rispetto a quest’ultimo “Altri regni” è meno riuscito nell’ambito della sospensione dell’incredulità. Neanche per un momento mi sono dimenticata che stavo leggendo una storiella inventata, nonostante il fatto che il protagonista ripetesse che era tutto vero. Anzi, proprio per questo motivo. Ma d’altronde penso che fosse voluto dall’autore, che, già in tarda età, scrisse questa favola in onore della moglie Ruth Ann (da cui prende il proprio nome la creatura fatata Ruthana), come dice nella dedica. E come tale deve essere considerata.
Proprio per questa sua decisione di scrivere un libro che sentiva suo, piuttosto che qualcosa che sarebbe potuto piacere al pubblico, apprezzo ancora di più questo autore. Mi spiace solo che adesso avrò un suo libro in meno da leggere.
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